
Da bambino andava sulla tomba dei nonni. A Linate, proprio dove gli aerei si staccavano da terra, e prometteva solenne: «Appena avrò i soldi, vi costruirò una cappella come si deve». Fu di parola Ernesto Pellegrini, presidente dell'Inter fra l'84 e il '95, in un'era ancora semiartigianale, ma anche tante altre cose. Una su tutte: l'incarnazione del miracolo italiano negli anni scoppiettanti e pionieristici del boom, quelli delle Seicento, dell'Autostrada del Sole, delle messe in piega vaporose, delle prime seconde case. Se Silvio Berlusconi era nato nel popolare quartiere dell'Isola, lui era venuto al mondo il 14 dicembre 1940 ai bordi di Milano: «I nonni - mi raccontava - avevano la cascina dove oggi sorge il Centro cardiologico Monzino». E infatti Ernesto era figlio di ortolani: galline, uova e verdure fra le ciminiere della capitale industriale italiana.
Il ragazzo diventa ragioniere e va a lavorare alla Bianchi, quella delle biciclette, dalle parti di via Mecenate. Qui arriva la grande occasione: il Benini, un sindacalista, un comunistone come si diceva allora, gli propone il colpo: «Il gestore della mensa se n'è andato, perché non ci prova lei? Lei ci sa fare, è figlio di ortolani, sa distinguere la verdura buona da quella cattiva».
Il contabile accetta: resta alla Bianchi, ma si sdoppia diventando anche imprenditore. Nel giugno 1965 nasce la Pellegrini, un'azienda che nel tempo diventa un colosso della ristorazione, del catering, sinonimo dei buoni pasto, e oggi dà lavoro a diecimila persone. Lui resta al timone per sessant'anni, affiancato progressivamente dalla figlia Valentina, ma sempre in prima linea e sempre attento ai gusti e alle esigenze del pubblico.
Come tutti gli imprenditori di successo, proprio come Berlusconi che due anni più tardi, nel 1986, rileva il Milan, Pellegrini è uno straordinario osservatore: «Già in quel laboratorio che erano gli anni Sessanta avevo capito che le donne in azienda non si sarebbero accontentate di un pasto frugale, come gli uomini, ma avrebbero preteso qualcosa in più». Di qui le mense e tutto il resto. La forchetta e il pallone.
Il successo lo travolge ed è costretto a interrompere gli studi serali in economia che ha intrapreso alla Cattolica: «Sono mezzo dottore - mi confidò - ho passato 16 esami su 32, poi avevo troppe commesse e ho lasciato perdere». Il rimpianto si, ma anche una perenne adrenalina e un inguaribile ottimismo.
La cascina intanto non c'è più: dove era arrivato il primo trattore, un Sametto, spuntano le ruspe. Via Bonfadini si trasforma come via Gluck: l'asfalto si mangia l'erba, i primi anni la famiglia va a vivere in una casa di 85 metri quadri in via Dalmazia, poi arrivano nuove dimore sontuose. Sempre più straordinarie. Come quella, strepitosa, comprata a due passi da San Siro, grande come mezzo stadio e teatro di feste e di concerti memorabili. L'ultimo, un paio d'anni fa, con Gianna Nannini.
Ma Pellegrini non tradisce le sue origini umili e porta forte l'imprinting del cattolicesimo ambrosiano, pragmatico, concreto, tutto oratorio e solidarietà col prossimo.
Un giorno il Cavaliere, come lo chiamano in azienda, legge sul giornale una notizia che lo raggela: un barbone è morto assiderato. «Era Ruben che non era un barbone, ma un salariato che aiutava mamma e papà in cascina, un gran lavoratore che dormiva su un letto di paglia e leggeva montagne di libri». La metamorfosi pasoliniana in quei primi anni Sessanta è per lui un trauma definitivo: perde tutto e finisce ai margini. «Nel 2014 - raccontava Pellegrini - ho trovato il modo di onorarlo».
In fondo a via Giambellino, non lontano dalla nuova sede di via Lorenteggio e a pochi chilometri da dove tutto era cominciato, nasce Ruben, il ristorante in cui i poveri possono mangiare con un euro. Gli altri invece pagano di più, ma Ernesto Pellegrini sapeva tenere tutti insieme alla sua grande mensa, i primi e gli ultimi.