L a barba grigia di Sergio Cofferati, che spunta in tv al primo exit poll per festeggiare la possibile vittoria in Liguria del berlusconiano Giovanni Toti segna il grande paradosso che investe il Pd nella notte delle Regionali.
La «sinistra masochista», l'aveva bollata Matteo Renzi in campagna elettorale, quella che aveva schierato il civatiano Pastorino contro la candidata Pd, gongola quando ai primi sondaggi la renziana Paita finisce terza dietro al candidato di Fi e al grillino. Mentre al Nazareno si registra una possibile batosta: fino all'ultimo, facendo gli scongiuri, si sperava in un sei a uno che avrebbe blindato il premier senza lasciare margini di revanche alla sinistra interna, e rafforzato il governo rispetto alle opposizioni. Anche un 5 a 2 con la sconfitta in Campania sarebbe stato più digeribile, con Rosy Bindi e la sua lista degli «impresentabili» cui mettere in carico il colpo basso. Perdere a sinistra in Liguria, invece, è assai più dura da accettare. Con l'Umbria rossa che ai primi exit poll vacilla in direzione del centrodestra. Visti i precedenti, alle 23 le prime rilevazioni vengono prese con grande prudenza. Ma in casa Pd si respira molta ansia. E preoccupa anche l'avanzata dell'antipolitica grillina, che ridà fiato ad una pericolosa ondata populista che Renzi aveva brillantemente «asfaltato» alle Europee.
La prima reazione ufficiale viene affidata al prudente vicesegretario Lorenzo Guerini, che indica il bicchiere mezzo pieno: «Se fossero confermate le tendenze che stanno emergendo, il 5 a 2 sarebbe un importante risultato per il Pd. Significherebbe oggi, nelle regioni che sono andate al voto da quando é in campo la segreteria Renzi, avremmo 10 governatori di centrosinistra e solo due di centrodestra». Ma l'ira contro chi ha «remato contro», dalla Liguria a Montecitorio, tracima dalle parole di Debora Serracchiani, che annuncia una «riflessione» da fare su chi, come la Bindi, ha «strumentalizzato un organo istituzionale» contro il governo.
Solo verso le nove di sera Matteo Renzi ha sciolto la riserva ed è partito dalla sua casa di Pontassieve (dove ieri mattina ha votato, insieme alla moglie Agnese, per il governatore uscente della Toscana, Rossi) in direzione Roma, dove tutto lo stato maggiore Pd era riunito al Nazareno per aspettare gli spogli. Fino all'ultimo, le partite più rischiose sono state appese all'incertezza.
L'alto tasso di astensione era atteso da tutti, tanto più nelle regioni in cui la partita era data per scontata. Ma probabilmente lo stesso Renzi non se la aspettava, una vigilia elettorale così: ha realizzato forse troppo tardi che le regionali, inizialmente sottovalutate a Palazzo Chigi, si sarebbero trasformate in una battaglia all'ultimo sangue contro il suo governo.
E lui stesso ha in parte contribuito a trasformarle in un referendum sulla sua leadership, impegnandosi in campagna elettorale più di quanto aveva previsto di fare, per salvare candidati che - in quasi tutti i casi - non ha neppure scelto. Il colpo basso finale lo ha dato ieri mattina Pier Luigi Bersani, con la sua non-intervista al Corriere : «Neanche la lealtà di metterci la faccia, sulle cose che dice», commenta aspro un dirigente vicino a Renzi. Un distillato di veleni verso il premier, da cui Bersani dice di voler «salvare» il Pd. Con un auspicio: «Prima o poi tornerà, il Pd delle origini», ossia quello della sua Ditta. «Pur di far perdere me sono disposti a far perdere il proprio partito, le hanno provate tutte per spingere i nostri elettori a restare a casa», si sfogava il premier coi suoi. Ora con la Ditta si dovranno rifare i conti.
di Laura Cesaretti
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