Roma - Il silenzio ferragostano, rotto da qualche rara sortita, è calato anche sul Pd. Matteo Renzi si gode il mare toscano con la famiglia, il governo è in ferie (salvo l'indefesso Marco Minniti), persino Paolo Gentiloni si è preso qualche giorno di stacco. Tornerà in pubblico il 20 agosto, al Meeting di Rimini che - prima ancora della caduta delle foglie - segna la ripresa politica post estiva. E che quest'anno potrebbe segnare l'inizio dell'assedio autunnale al leader Pd.
Basta scorrere l'elenco dei partecipanti: nessun renziano doc (solo l'amico Graziano Delrio), molti avversari: Enrico Letta, Carlo Calenda, Andrea Orlando. Il quale ieri, in un'intervista alla Stampa, ha anticipato quello che sarà il cuore dello scontro politico prossimo venturo: la legge elettorale, e - di conseguenza - la data del voto per le prossime Politiche. In nome dell' «interesse nazionale», il Guardasigilli (impegnato anche in vacanza in intense trattative con la sinistra extra Pd, Giuliano Pisapia in primis) chiede a Renzi di farsi promotore di una iniziativa per una nuova legge elettorale con un premio di coalizione che costringa il Pd ad allearsi con «sinistra e moderati», perché con quella in vigore «abbiamo l'altissima probabilità di non avere una maggioranza di governo». Concetti che, curiosamente, riecheggiano quelli esposti, nel campo opposto, da Silvio Berlusconi.
La linea del leader Pd resta la stessa: nessuna modifica a ridosso delle urne senza il consenso di tutti, «da Grillo a Fi». Per Renzi la legge vigente, che schiaccia Fi sulla Lega, avvantaggia il Pd. Ma la manovra a tenaglia per riaprire la legge elettorale, e di conseguenza allungare la vita della legislatura (che nelle speranze renziane dovrebbe invece concludersi con l'approvazione della Finanziaria, a fine anno) fino alla prossima primavera, vedrà protagonista un triangolo che ha i suoi lati in una parte del Pd e in Forza Italia, e il suo vertice sul Colle. Con Gentiloni che vorrebbe restare spettatore neutrale, ma finirà per essere tirato in mezzo alla tenzone: per i renziani, il premier dovrebbe dichiarare esaurito il compito del governo con la Finanziaria, e aprire la strada al voto. Renzi sa che in novembre un'eventuale sconfitta in Sicilia verrà brandita contro di lui dai nemici interni, e mette le mani avanti: «Non è certo un test nazionale. Dopo il voto in Sicilia, un paio di mesi e si sciolgono le Camere: a cosa pensano, a una crisi di governo o a un cambio di segretario a un passo dalle urne? Senza ripetere che la segreteria non è attaccabile, visti i due milioni di votanti alle primarie». Ma sa che, se dal Quirinale partirà l'appello a cambiare la legge elettorale, l'assedio interno ed esterno sarà difficile da arginare.
E che se, con la scusa del premio di coalizione, si riapre il dossier legge elettorale, alla Camera - dove vige il voto segreto - sarà facile far passare via emendamento la reintroduzione delle preferenze. Per ottenere quel che i suoi oppositori interni davvero vogliono - al di là dell'«interesse nazionale» - ossia levargli di mano il controllo delle liste.
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