Cronache

"Repubblica era persino più potente di un partito"

Il bilancio: "Perse le battaglie politiche più importanti ma esercitò una influenza decisiva sull'elettorato"

"Repubblica era persino più potente di un partito"

Pierluigi Battista: fino a che punto Eugenio Scalfari era un giornalista politico? Voleva essere lui a far nascere e a far cadere governi?

«È stato l'interprete forse più efficace di un giornalismo interventista, basato sull'idea che i giornali non dovessero essere solo ricostruzione cronachistica dei fatti ma creare opinione. E alcuni tra i suoi più aspri nemici chiamavano Repubblica il giornale-partito. La sua carriera è sempre stata all'insegna della fusione tra giornalismo e politica, lui era interprete di un mondo diviso in due categorie, una che rappresentava le sue idee e l'altra. Una forma di manicheismo, che gli faceva distribuire pagelle. Lui era l'uomo-giornale, prima con l'Espresso poi con Repubblica».

Lo era Repubblica un «giornale partito»?

«In qualche modo sì, ma aveva un potere superiore ad un partito. Le battaglie politiche sulle quali Scalfari ha puntato il maggiore impegno, quella contro Craxi e per De Mita, quella contro Berlusconi, non sono state vincenti, ma l'obiettivo non era quello immediato quanto l'investimento a lunga durata sugli elettori, che erano solo in parte i lettori. Questa influenza stabile sull'elettorato la immaginò quando ancora i giornali contavano, ora non è più così».

Una formazione dell'opinione pubblica, influenzandola in un preciso senso politico.

«La sua intuizione era che più di apparati, burocrazie e congressi fosse efficace l'intervento culturale, che il giornale fosse il vero luogo dove si forma l'opinione. Non serviva per avere un certo numero in più di elettori-lettori, ma per farli partecipare ad un progetto politico collettivo. Il giornalismo politico lo vedeva come antropologia, il lettore ogni giorno doveva sapere dal suo giornale quali libri leggere, quali film vedere per costruire la sua opinione. Questo per lui era più importante di un partito».

Un potere che Scalfari usava sapientemente per attaccare gli avversari e sostenere gli amici.

«Si, ma come ho detto tante battaglie sulle persone le ha perse, lui inseguiva le sue idee. Appoggiava De Mita perché era avversario di Craxi e lui amava la prospettiva di un rapporto tra Dc e Pci che scavalcasse il Psi. Voleva traghettare il Pci sulle sponde della democrazia governativa, sciogliere l'involucro comunista per far emergere una sinistra progressista. Ogni volta che il Pci faceva un passo verso l'autonomia dall'Unione sovietica scriveva: Ecco ha passato la sponda. Dopo aver accarezzato l'idea di una terza forza laica, abbracciò quella di un mondo alternativo perché moralmente superiore e negli anni '80 sostenne Berlinguer, con il quale aveva un rapporto stretto, perché poneva la questione morale in alternativa al sistema democristiano. Amava Moro perché era favorevole ad un rapporto diverso con il Pci. Questo progetto politico era ostacolato da Craxi, che detestava perché era un altro da sé antropologico e si gettò a corpo morto su Tangentopoli pensando di spianare la strada a Occhetto. Invece, inaspettatamente per tutti, arrivò Berlusconi a cambiare le cose».

Scalfari come si sentiva: direttore di giornale, capo politico, consigliere dei leader...

«Aveva fatto la scelta, un po' snobistica, di essere interprete di una certa Italia di derivazione azionista, un'Italia minoritaria contro l'Italia alle vongole che avversava. La redazione l'adorava, le normalmente stanche e svogliate riunioni di redazione con lui diventavano liturgie in cui parlava con i politici con il viva voce e gli altri ascoltavano. Non voleva essere consigliere dei politici, dovevano essere i politici ad andare a casa sua. Ha inventato anche un nuovo linguaggio del giornalismo come racconto, coniato termini come razza padrona, nel suo editoriale della domenica raccontava il senso politico ma non solo di quello che accadeva. La storia è simile a quella di Indro Montanelli con Il Giornale, anche se tra i due c'era forte ostilità e differenza di personalità ambedue incarnavano il giornale d'opinione».

Una sola opinione o più opinioni, per non cadere nella faziosità?

«Anche chi non lo trovava simpatico deve ammettere che faceva parlare figure diverse e metteva al confronto le opinioni. Quando ci fu la crisi del Corriere della Sera per la P2 ospitò su Repubblica Ronchey e Biagi, in spazi specifici per far capire che non erano scalfariani e poi i due tornarono al Corriere della Sera. Leggeva molto gli altri, non solo se stesso come tanti, interloquiva, commentava e sapeva essere autocritico.

All'origine, ad esempio, Repubblica non aveva la pagina sportiva perché voleva essere giornale d'élite, poi ci fu il cambio di passo e di natura».

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