Le retate per reato di parola

Mai, apparentemente, siamo stati così liberi di usare le parole. E invece mai ne siamo stati così schiavi. Il caso Tortosa lo dimostra

Le retate per reato di parola

Siamo circondati dalle parole: parole dette, scritte, postate, twittate. Tutti parlano e straparlano, dicono la loro, giudicano, criticano, insultano. Per strada, sui giornali, in tv, sui social. Mai, apparentemente, siamo stati così liberi di usare le parole. E invece mai ne siamo stati così schiavi. Le parole sono pericolose, e non perdonano. Un'azione illecita spesso resta impunita. La parola sbagliata, mai. Si paga sempre. Sembra un paradosso, invece è una realtà agghiacciante. Un poliziotto viene sospeso dal servizio non per le manganellate date, ma per aver detto pubblicamente, senza aver dato manganellate, di essere orgoglioso di fare parte della polizia. Una giornalista viene sollevata dalla conduzione di un programma tv non per un errore professionale in video, ma per aver rivolto un insulto su una piattaforma pubblica. Un politico viene bloccato su Facebook non perché ha commesso un illecito, ma per aver detto la parola scorretta: perché ha detto «zingaro».

Se Paola Saluzzi fosse stata zitta e avesse schiaffeggiato Alonso incontrandolo per strada, sarebbe tranquillamente in video. E se Matteo Salvini avesse aggredito un rom, ma senza insultarlo, sarebbe, oltre che al Parlamento europeo, sul web. Invece sono stati allontanati dalla piazza televisiva la prima, e da quella virtuale il secondo, per una parola che non piace. Per una parola «contraria» direbbe un intellettuale impegnato. Il quale però confonde la libertà di opinione (sacrosanta) con l'istigazione a delinquere (che è reato).

A volte un'offesa costa più di un crimine. Una volgarità più di una violenza. Se compio un reato posso continuare a lavorare normalmente, aspettando una denuncia, poi il processo, e dopo la sentenza, se arriverà... Se invece uso la parola sbagliata, pago subito: espulsione, sospensione, discredito. Siamo prigionieri delle parole, terrorizzati dal termine fuori luogo, succubi del politicamente corretto. La presidente della Camera decide quali parole possono essere usate dai deputati, quali dai giornalisti. Come se la lingua potesse diventare non-sessista per decreto, o per moral suasion .

Siamo ossessionati

dal linguaggio «adeguato», dall'«identità di genere», dal rispetto verbale della diversità. Possiamo fregarcene di ciò che facciamo. Ma dobbiamo stare attentissimi a ciò che diciamo. E diciamo che siamo un Paese liberale...

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