Mario Draghi non ha alcuna certezza su dove sarà a febbraio. Qualche tempo fa avrebbe scommesso con un certo ottimismo sul trasloco al Quirinale. I partiti, quasi un anno fa, in qualche modo glielo avevano promesso. Nulla di scritto, non un patto, ma un vago impegno per spingerlo a sciogliere le ultime riserve, una sorta di prelazione sulla successione a Mattarella. Questa perlomeno è la versione di Draghi. Le cose poi si sono complicate in fretta e lui prima di Natale ha dovuto mettere in piazza la sua candidatura. Non vi scordate di me.
C'è stato un momento in cui si è pensato a una soluzione ponte. Mattarella che resta al suo posto per congelare il tempo e dare un altro anno di governo a Draghi. L'attuale presidente non ha condiviso questa idea. Non è della stessa pasta di Napolitano. Non ha mai pensato che la rielezione sia una buona cosa e dal punto di vista costituzionale la considera una forzatura. Il suo discorso di fine anno è l'addio al Colle, con l'invito alle forze politiche a inventarsi una soluzione per trovare presto il successore. Toccherà a loro immaginare un futuro, costruire adesso un progetto politico che non lasci l'Italia vuota e instabile. I rischi ci sono. Draghi lo ringrazia per l'invito all'unità nazionale. «Sono parole che toccano il cuore». Il problema è che proprio il desiderio del capo del governo di cambiare ruolo sta finendo per destabilizzare i partiti. Draghi in questo momento rappresenta la loro unica certezza politica.
Il fatto che stia lì a Palazzo Chigi li rassicura. È il nome intorno al quale si è condensata una maggioranza di governo anomala, frutto di una stagione di emergenza, destinata a dissolversi appena si tocca il fulcro che la tiene insieme. Come si fa a togliere Draghi? Non basta spostarlo al Quirinale per tenere tutti insieme. Il vuoto che Draghi lascia da una parte non verrebbe compensato dalla sua presenza dall'altra. Il vuoto in questo momento viene percepito come più forte del pieno. Non è insomma un trasferimento a costo zero. È così che i desideri di super Mario non si allineano con le paure dei partiti di maggioranza. Il risultato è che Draghi cerca di ridurre all'essenziale la sua agenda politica e chi lo sostiene fa di tutto per riempirla.
Il Pd si considera il partito più vicino alle ragioni di Draghi, ma non ha fatto mai neppure mezza mossa per indicarlo come candidato per il Colle. Si tiene in una linea di perenne ambiguità. Il Pd vuole Draghi presidente? Non si sa. Spera che resti a Palazzo Chigi? Forse. È favorevole al voto anticipato? Magari sì, magari no. La realtà è che il partito di Enrico Letta fatica a esprimere una posizione netta. È lì che consuma tempo.
Matteo Salvini non si pone invece neppure il problema. È Draghi il «medium» che permette alle forze di maggioranza di interagire. Non ci sono alternative. Addirittura allarga il suo campo di mediazione al di là del consiglio dei ministri. Esempio. «Chiediamo formalmente un tavolo nazionale, anzi una cabina di regia come dicono adesso, sul tema caro-bollette luce e gas, una mazzata da 1.000 euro a famiglia e da 30 miliardi per negozi, artigiani e imprese». Lo stesso vale per il Pnrr, per le tasse, per l'immigrazione, per il ruolo dell'Italia in Europa. Draghi è il centro della politica nazionale e senza di lui non ci sarebbe altra possibilità che andare alle elezioni.
Draghi al Quirinale non rientra neppure nei piani di Giuseppe Conte. È un concetto che continua a ribadire.
Come sostengono molti parlamentari Cinque Stelle «non possiamo permetterci quattro mesi di interregno». La domanda allora è come cambiare le carte in tavola. Come farà Draghi a trovare i suoi grandi elettori? Qualcuno sostiene che, su richiesta dell'interessato, alla fine ce lo chiederà l'Europa. Ma è una malignità.
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