Politica estera

Riforma della giustizia, Netanyahu nel mirino. Resiste all'attacco della sinistra ma molla Deri

Oltre 100mila in piazza contro il premier. Lascia il ministro dell'Interno

Riforma della giustizia, Netanyahu nel mirino. Resiste all'attacco della sinistra ma molla Deri

La piazza di Israele secondo la corrente narrativa di giornali come il New York Times e in Italia come la Stampa o fogli ideologici come il Manifesto, protesta contro il pericolo che Israele correrebbe di abbandonare la strada della democrazia, di diventare preda di una banda di pregiudicati irresponsabili che la vogliono trasformare da un Paese multiculturale, democratico e stabile.

Ma questa versione dei fatti è contraddetta da tutti i media israeliani e internazionali: quando mai un governo tendente all'autocrazia dopo una vittoria elettorale molto decisa, consentirebbe il ripetersi ossessivo di slogan gridati, di dotte dissertazioni di intellettuali, di cipigliose affermazioni di ufficiali ancora in carica contro il governo appena eletto? Quando mai un giornalista è stato interdetto dalla sua diatriba quotidiana contro Netanyahu? E tuttavia qui è in corso una contestazione di piazza contro i volti di questo nuovo governo, 64 seggi su 120, e contro le proposte di legge avanzate, specie quella relativa alla riforma della Corte Suprema. I motivi sono antichi e in niente simili all'ispirazione di un putsch. Il giudice Aharon Barak ne promosse negli anni 90 una riforma che ne ha fatto l'arbitro indisputabile della vita di Israele, ed oggi fra gli altri si è levato per denunciare la presunta «catena velenosa» che porterà alla caduta dello Stato di Diritto. Ed è logico: è la sua stessa creatura che viene messa in discussione, e gli duole. È la stessa creatura che da quando il cosiddetto «Bagaz» fu da lui riformato conservò le caratteristiche che l'hanno resa possesso definitivo di una sola parte politica, la sua: un sistema elettivo in cui «amico chiama amico». La proposta di legge del nuovo ministro della giustizia Yariv Levin, che propone il possibile recupero a maggioranza delle leggi eliminate per motu proprio dal «Bagaz» e la scelta dei giudici secondo criteri in buona parte di proporzione politica è stata dichiarata da tutti i leader del governo precedente, da Yair Lapid, a Benny Gantz, un tentativo di colpo di stato autoritario.

I toni esagitati non si distanziano da quelli che accompagnano la campagna di odio per Netanyhau ormai da anni, che in questi giorni si sono fatti ancora più alti ottenendo l'esclusione di Arieh Deri, il leader di Shas il partito religioso sefardita, un moderato di grande esperienza politica con tuttavia una pena scontata per problemi fiscali, dal ruolo di ministro. È vero, il Paese ha una larga minoranza anti Bibi, che ha diritto di manifestare, e che si oppone al ritorno nel ruolo di premier di una figura eminente, carismatica, nota in tutto il mondo. Ma questa minoranza usa toni disinformati, di piena diffamazione, molto bene accolta dai suoi nemici nel mondo, dello Stato d'Israele. Uno degli oppositori di Netanyahu è arrivato ad affermare che le elezioni contano poco: «Non vi ricordate che anche Hitler andò al potere con le elezioni». I toni di odio sono arrivati a questa follia, dunque il timore del consolidamento della destra al governo non ha nulla a che fare con l'idea che si possa instaurare il fascismo ma semplicemente che la sinistra venga esclusa dalla sua gestione, dalla egemonia culturale di cui ha goduto sin dai tempi di Ben Gurion.

Le classi dirigenti di sinistra del Paese sentono che la parte conservative del Paese ha adesso la possibilità di dire la sua, che davvero ha vinto le elezioni, che sta facendo nuove leggi.

Bibi che ha già governato Israele per 11 anni plasmandone una democrazia egualitaria rispetto a etnie, scelte politiche sessuali, religiose dovrebbe davvero essere impazzito per voler trasformare d'un tratto la sua eredità storica.

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