Il rito dell'ultima fiducia: via libera con 12 voti in più

Al Senato l'atto finale del governo sulla manovra: 173 sì, 108 i no. Atmosfera distratta, la Boschi in nero

Il rito dell'ultima fiducia: via libera con 12 voti in più

«E qualcosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure...», avrebbe cantato Francesco De Gregori. Così dell'ultimo atto politico del governo Renzi prima delle dimissioni al Quirinale restano alcuni fotogrammi, simboli di un'epoca che forse è ancora di là dal chiudersi definitivamente. In primo luogo, resta l'immagine del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ieri a Palazzo Madama per apporre la 65sima questione di fiducia sulla legge di Bilancio (quasi due al mese per l'esecutivo guidato dall'ex sindaco di Firenze, rimasto un gradino sotto le tre mensili del recordman Monti). Abito nero come nero era lo smalto sulle unghie, sorridente come al solito, asciugate le lacrime della notte della sconfitta.

La seconda immagine è quella dello stesso voto di fiducia: 173 sì e 108 no. Sono numeri che non farebbero pensare a una crisi di governo visto che la maggioranza ha raggiunto una cifra significativa (più 11 sul quorum di 161) toccata, ad esempio, quando si dovettero serrare le fila per far passare, sempre con fiducia, il ddl Cirinnà sulle unioni gay. Numeri che potrebbero indurre a qualche riflessione anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sul testo della legge ci sono stati 166 sì, 70 contrari e un astenuto.

La terza immagine raffigura, invece, un'Aula distante, quasi assente, tutta concentrata sul futuro politico di ciascun esponente della Camera Alta. Qualche brusio all'annuncio dell'ennesima fiducia, malumori delle opposizioni diversamente declinati. «Renzi lascia un Paese in macerie, con una legge elettorale che non c'è e quella di bilancio che è piena di marchette e di norme senza coperture», commenta Maurizio Gasparri, vicepresidente del senato di Forza Italia. La grillina Paola Taverna, invece, si abbandona al linguaggio da osteria proprio del suo cognome e in un video postato e poi cancellato da Facebook afferma che quella votata è «una legge di merda che ci stanno lasciando, con una quantità di marchette fatte da Renzi per portarsi a casa il referendum e manco se l'è portato a casa, e a noi lascia i debiti». È lo Zeitgeist del popolo che sceglie i propri rappresentanti con un click.

Da segnalare, inoltre, che quattro senatori di Ncd (Ulisse Di Giacomo, Maurizio Sacconi, Giuseppe Esposito e Roberto Formigoni) hanno scelto di non votare la fiducia. «In questa manovra ci sono troppe lacune e troppe mance elettorali: si poteva prendere una settimana di tempo per introdurre delle modifiche e poi approvare il testo», ha spiegato l'ex governatore della Lombardia. Un chiaro segnale che il fronte centrista è ben di là dall'essere compatto come vorrebbe Angelino Alfano.

In effetti, sono troppi i temi trattati dalla legge di Bilancio a restare sospesi, tra virgolette, e di cui il nuovo (il nuovo-vecchio) esecutivo dovrà farsi carico. In primo luogo, si tratta soprattutto di spese correnti delle pubbliche amministrazioni. A partire dal rinnovo dei contratti degli statali: sugli 85 euro sbandierati prima del referendum dal premier non c'è nessuna certezza oltre il 2017. Come non c'è certezza per i 22mila precari della Regione siciliana e per i 350 dell'Istat.

La senatrice Elena Centemero ha ricordato poi che «le 400 borse di studio di 15mila euro previste per gli universitari non rispondono al principio di equità e neppure a quello di merito». Resta, infine, da definire la ripartizione del Fondo da 3 miliardi che sarebbe dovuto andare agli enti locali. Gatte da pelare di cui Matteo per ora s'è disfatto.

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