Cronaca locale

Il ritorno in ospedale dell'angelo della morte

Sonya Caleffi uccise con un'iniezione letale 5 pazienti a Lecco. È stata vista al Niguarda

Il ritorno in ospedale dell'angelo della morte

Milano - Qual è il volto del male? Che faccia ha un assassino? Guardando Sonya Caleffi entrare in un portone di una via di Milano in un appiccicoso lunedì mattina agostano nessuno direbbe mai che dietro quel caschetto biondo dalla camminata sicura c'è una donna con un passato ingombrante da spietata killer. Sonya è l'infermiera di Lecco arrestata nel 2004 e condannata con sentenza definitiva in Cassazione a 20 anni perché avrebbe iniettato ossigeno ad almeno cinque malati dell'ospedale Manzoni di Lecco, anche se per la Procura - sebbene lei abbia sempre negato - le vittime sarebbero molte di più, gli altri omicidi sarebbero stati compiuti in altri periodi e in diverse strutture sanitarie della provincia di Como.

Da pochi mesi è libera perché il suo debito con la giustizia è stato saldato, complice un'alchimia giuridica tra indulto e buona condotta. Lei si è detta pentita, e chi la conosce dice di crederle. In carcere non ha mai sgarrato, tranne un frettoloso matrimonio con un detenuto naufragato dopo pochi mesi. Da molti anni, almeno cinque, lavora con una cooperativa di Milano che si occupa di servizi, prima in permesso, poi da persona libera. Ad aiutarla a uscire dal tunnel, assumendola in una delle sue aziende, è stato un benefattore. Un imprenditore di origini pugliesi classe 1937, U.D.M. che ha deciso di destinare una parte della sua vita (e dei suoi soldi) ad aiutare persone in difficoltà, ex detenuti appunto, esclusi, emarginati. Gente che nessuno vorrebbe tra i piedi.

C'è un mondo di volontariato che si muove silenzioso, fuori da carceri modello come Bollate, senza fare proclami. Se il carcere riesce davvero a rieducare, se persone come Sonya ce l'hanno fatta, è merito di uomini come lui. Poi la vita ti presenta il conto. Un malore in Puglia, la sua terra, il buio che lo inghiotte per qualche giorno. Il ricovero in un ospedale di Casarano, la nemesi: U.D.M viene trattato come fosse un barbone, un escluso, un dimenticato. Poi gli amici riallacciano i contatti, la famiglia lo fa trasferire non senza problemi al Niguarda di Milano, prima al reparto Malattie infettive (senza motivo) poi al blocco nord, terzo piano, reparto di Neurologia. Siamo a metà luglio, i familiari sono sparsi per l'Italia in ferie o per lavoro. E chi meglio di Sonya, decide la famiglia, può prendersi cura del suo benefattore in ospedale? Detto, fatto.

E così l'ex angelo della morte ogni mattina anziché andare a lavoro è andata al Niguarda. È tornata in corsia, seppure per qualche giorno, a sfidare il suo passato e a guardare in faccia il suo presente. Nessuno l'ha riconosciuta, nessuno tra pazienti, medici ed ex colleghi si è mai accorto che quella donna bionda che aiutava il suo benefattore a mangiare e camminare era Sonya Caleffi, l'infermiera killer pentita che così rivendica a suo modo il diritto all'oblio. Chissà cosa pensano i parenti delle vittime della Caleffi. Figurarsi chi era al Niguarda in quei giorni, ignaro.

Il solito pasticcio all'italiana.

Commenti