Riva, il genio ucciso da una giustizia invidiosa e ignorante

Emilio Riva. Imparerete, dopo aver compulsato il libro che tenete in mano, a ripetere questo nome e a pensare alla per- sona che lo portava con infinito rispetto. Anche i più duri e convinti denigratori delle opere del citato signore, pro- prietario e gestore delle acciaierie di Taranto, dovranno – se hanno un minimo di onestà intellettuale – picconare le loro convinzioni di granito, e lasciarsi invadere almeno da un dubbio. Io non ne ho più. Era una brava persona, imperfetta come tutti, ma aveva il genio dell'imprenditore (...)

(...) lombardo; partito dal niente, ha corso il rischio d'impresa, dove si può perdere tutto, sbagliando un prodotto o una strategia. A ucciderlo però non è stata la concorrenza, o un abbaglio ingegneristico, ma ciò che non aveva considerato: il com- binato disposto – come dicono quelli che sanno le cose – di ignoranza e di invidia. La moda ecologista un tanto al chilo e l'odio per i ricchi, tipico di un cattocomunismo tutto italiano, hanno fatto scattare la sindrome del capro espiatorio. Lui con il suo orgoglioso silenzio ci ha messo del suo: ha lasciato che preparassero la pira su cui bruciarlo senza protestare, permettendo che lo accusassero e lo dipingessero come un Erode vestito di silenzio e di menefreghismo.

Ma dopo queste pagine, bisognerà riaprire la pratica. Forse non è come la raccontano. Forse non era un assassino e nemmeno un distruttore cinico della natura. Forse siamo davanti a qualcosa di più e di peggio di un errore giudiziario. In fondo l'errore non si è ancora consumato. Non c'è stato alcun giudizio né di primo né di secondo né di terzo grado, su Emilio Riva. Né ci sarà più. Triste, solitario y final , come il titolo del romanzo di Osvaldo Soriano, è morto nel carcere della sua casa prima che ci fosse alcun giudizio di merito.

Eppure la sentenza è scritta. La sua colpevolezza è stata decisa nell'istante stesso in cui pm e gip hanno spiccato i mandati d'arresto di Emilio, di un suo figlio e di vari dirigenti, spinti dal clima di «dagli all'untore» che vede gli industriali quali propagatori consapevoli della peste. Governo, partiti, sindacati, Chiesa cattolica invocano investimenti, chiamano capitali americani e il rientro di quelli italiani per rimettere in piedi l'industria. Ma appena uno riesce a far funzionare una fabbrica, dà lavoro e ricava utili, diventa un assassino potenziale e nel caso di Riva un criminale seriale. Le prove? Nessuna. Tutti si improvvisano esperti in epidemiologia e bevono come oro colato relazioni senza forza scientifica. Non serve che le tesi accusatorie siano sbugiardate da periti di tribunale. La furia da linciaggio è innescata dalla semplice ipotesi di reato. Ci si convince della volontà di fare del male. Non si prende atto che il presunto assassino, ahimè o forse per fortuna morto, ha vissuto insieme a quegli operai e impiegati, dividendo con loro polveri e fumi, oltre che la fatica. Emilio Riva... Ditelo con rispetto questo nome. Altro che mostro.

Ho imparato tutto ciò non dai giornali. Ho dovuto accorgermi dello scempio - anche se qualche cronista coraggioso aveva provato ad alzare timide barriere di buon senso contro la bufera oscurantista - leggendo le bozze del volume che ora sfogliate. Fidatevi, è prezioso.

Ci sono dei libri che hanno un valore privato, sono destinati a piccola circolazione, sono lettere ad amici o ai figli, perché ricordino qualcosa di noi. Oppure esistono le denunce pubbliche di un torto subito, e si danno alle stampe confidando che scuotano il potere dalle fondamenta.

Questo libro è un'altra cosa. È una missiva intima, che più intima non si può, perché è un lungo biglietto d'amore al proprio uomo. E insieme è una testimonianza pubblica di potenza civica dirompente. Ciò rende l'opera di Giovanna du Lac Capet una rarità, una perla e insieme una bomba. Vedrete: cercheranno di nascondere la perla e di togliere la miccia alla dinamite. Eventualmente diranno alcune parole comprensive per il dolore della vedova, le perdoneranno le accuse puntuali e chiare come il sole, dicendo: poveretta, bisogna capirla, è la moglie di Emilio Riva, morto a 88 anni, mentre era privato della libertà, malato, chiuso in casa, senza poter vedere nessuno, salvo gli avvocati; non vuole capire, la signora, che quell'uomo ha distribuito tumori come caramelle. Proprio alla descritta immagine terribile, e da cui Emilio non può più difendersi, si oppone e si opporrà questa nobile donna italiana e africana, bizantina e francese, discendente dei re Capetingi, di Costantino il Grande e degli imperatori dell'Impero romano d'Oriente. Ma soprattutto una donna innamorata, capace di versare ogni stilla di se stessa per la causa di un uomo con cui ha diviso il letto e il risotto (il lavoro no, lui glielo impedì sempre) per più di quarant'anni. Peggio delle denunce in tribunale sarebbe l'oblio o la compassione condiscendente. Se ho imparato a conoscere dalle sue parole la signora Giovanna - come presto farete voi, e arriverete in un amen in fondo al libro - la cosa che ella teme di più è la damnatio memoriae del compagno della sua vita. In che cosa consiste l'operazione? Si tratta di inquinare per sempre il ricordo di una persona, fino a impedire qualsiasi revisione storica dei fatti e dei giudizi conseguenti. È una tecnica fatta apposta per togliere la voglia di curiosare nelle vicende su cui è stata scritta la verità ufficiale, al punto che chi si azzarda a formulare un'ipotesi meno conformista è messo sulla graticola come amico prezzolato dei malfattori. Io, che sono nessuno, e non ho autorevolezza in alcun ramo della scienza e della morale, ho però un difetto: sono curioso, non mi sono mai accontentato delle verità stabilite una volta per tutte e pure con la pretesa di essere inoppugnabili. Non perché sia virtuoso, figuriamoci, ma perché mi stanco a stare in gruppo. Se non avessi in uggia la noia, avrei passato le serate a giocare a carte con gli altri inviati a Napoli per il processo Tortora, invece di spulciare tra le carte accusatorie giudicate infallibili da (quasi) tutti i miei colleghi. Sia chiaro: qui non istituisco nessun paragone tra Riva e Tortora. È diventata stucchevole questa liturgia e giustamente fa arrabbiare la figlia. Ogni ingiustizia è un'ingiustizia unica. Quella che ha colpito i Riva emerge dal racconto con la forza dell'ingenuità. E volentieri ho accettato di scrivere queste pagine come modesto deterrente ai tentativi di disinnescare la potenza della verità. Sia chiaro: non ho alcuna vocazione a fare lo scudo umano delle cause perse. Ma mi dispiacerebbe perdere questa causa. Mi sono convinto sia autentica e che tutto sia onesto, fin nelle virgole, nel diario in questione perché Emilio Riva esce dalla narrazione non come un «Cavaliere immacolato», ma persino come uno «stronzo» (lo dice la sua signora) ossessionato dal lavoro, al punto da metterlo davanti a qualsiasi cosa, anche agli affetti. È la mania milanese, il vizio lombardo. Che razza di uomo però. È tanto più efficace la testimonianza dell'autrice proprio perché è così personale, piena di elementi di una vita familiare che la riservatezza dei Riva aveva impedito finora di riferire. Ne emerge qualcosa di estremamente sobrio, e insieme tenero. Giovanna è convinta di denudarsi e di mostrare il marito nella sua autenticità. Eppure resta nella sua prosa il segno di un pudore e di una discrezione oggi incomprensibili nella pseudo-civiltà del gossip. La vedova (non so che titolo darle, forse Principessa, mi perdonerà l'ignoranza se per me è solo una signora, una vera signora) dice molte cose della storia d'amore con Emilio, ma non c'è nessuna civetteria né esibizionismo: è come chi deve mostrare le fotografie di una tortura ricevuta perché non si ripeta più per nessuno.

Il presente diario è dunque un esplosivo a carica multipla, una bomba cluster, che vuole arrivare al cuore dello Stato, nelle viscere della Giustizia e nella mente degli italiani. Allo Stato e al governo dice: Emilio Riva è stato il più grande industriale italiano. Ha illustrato il nome dell'Italia nel mondo. Ha dato un'occupazione a centinaia di migliaia di persone. Ha resuscitato la siderurgia, trasformandola in fonte di ricchezza e orgoglio nazionale, dopo che le partecipazioni statali l'avevano ridotta a idrovora di denaro pubblico. Perché non avete impedito con la forza dei decreti e del buon senso di demolire un bene?

Alla giustizia dice: che senso ha sbattere agli arresti domiciliari un signore ampiamente sopra gli 85 anni, malato? Che roba è? Non vale qui tirare fuori i bambini morti di cancro. Non c'entra nulla. È presunto innocente.

Agli italiani dice questo, Giovanna du Lac Capet.

Avete in mente la figura stilizzata della Giustizia, incarnata nella dea greca Dike? L'autrice non vuole bucare il marmo della sua statua che troneggia negli androni delle varie procure e dei relativi tribunali, ma vuole provare a suscitare un senso di vergogna collettiva per il linciaggio cui è stato sottoposto il suo uomo. Il modo per persuaderli è una lettera d'amore di una donna che non sopporta le sia stato ucciso il marito dall'ingiustizia. Secondo me si illude. Ma tifo per lei.

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