Che sberla per l'aspirante sultano. Recep Tayyip Erdogan contava sul risultato delle elezioni politiche di ieri per consolidare il suo potere e metter mano alla Costituzione spingendo ulteriormente la Turchia verso un'autocrazia di stampo islamico. Ma aveva fatto i conti senza l'oste, ovvero senza i turchi. Che gli hanno sì concesso ancora una volta una larga maggioranza relativa, ma non quella assoluta alla quale apertamente puntava, visto che nel 2011 aveva preso il 49% dei voti: così che il 41,2% che i risultati ufficiosi attribuiscono al suo partito Akp, e che farebbe leccare i baffi a quasi ogni leader politico occidentale (David Cameron ha appena vinto in Gran Bretagna con il 36), assume il sapore paradossale di una sconfitta.
Questo perché Erdogan aveva fatto i conti anche senza un altro soggetto che si è poi rivelato decisivo per il mancato conseguimento dei suoi obiettivi: il partito della minoranza curda. Guidato da un carismatico avvocato poco più che quarantenne, Selahattin Demirtas, un ex dirigente di Amnesty International con simpatie a sinistra, l'Hdp ha progressivamente smussato le sue posizioni di sola rappresentanza etnica per arrivare a proporsi anche come il solo partito in Turchia a mettere nel programma la difesa dei diritti delle donne e degli omosessuali, insieme a quelli di tutte le minoranze etniche e religiose. Anche così è riuscito a mettere insieme i consensi per valicare l'erta asticella del 10 per cento dei suffragi, soglia al di sotto della quale non si entra nel Parlamento nazionale.
I 75-80 seggi dell'Hdp - che porta per la prima volta una rappresentanza curda ad Ankara - hanno un peso specifico formidabile, perché impediscono all'Akp di ottenere la maggioranza assoluta e di formare il nuovo governo: avrà infatti «solo» 260 seggi su 550. Smacco di cui la dirigenza del partito di Erdogan, da oltre un decennio abituato a incassare solo trionfi, ha dovuto prendere atto già mentre lo spoglio era ancora in corso. «Prevediamo di formare un governo di minoranza e non escludiamo il ricorso in tempi rapidi a elezioni anticipate», ha detto una fonte anonima della dirigenza dell'Akp, mentre il premier uscente Ahmet Davutoglu mostrava di accettare il responso delle urne con un impeccabile dichiarazione: «La decisione del popolo è la decisione più giusta».
Chissà se lo pensava davvero. Quel che è certo è che il verdetto è l'espressione di una volontà popolare, visto che si è recato alle urne quasi l'85% degli aventi diritto. Va anche considerata la discreta forza dei due principali partiti d'opposizione: ai laici kemalisti del Chp va oltre il 25%, mentre ai nazionalisti di destra del Mhp tocca un 17% scarso. Insieme con i curdi, avrebbero in teoria la maggioranza assoluta in Parlamento. Ma siccome tutto li divide tranne l'ostilità al mancato sultano, è più che probabile che la previsione di non lontane nuove elezioni risulti la più realistica.
Logico anche attendersi qualche colpo di coda da parte di un leader come Erdogan, ambizioso e megalomane come dimostra il gigantesco palazzo presidenziale che si è fatto costruire ad Ankara con i soldi dello Stato.
Sono state certamente anche queste esibizioni di satrapismo, oltre alle sempre più arroganti minacce alla libertà di stampa, a fargli perdere una quota di consenso decisiva. E forse le parole di Davutoglu riflettono dubbi crescenti anche nel suo stesso partito.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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