La scia dell'infezione: corse, calcio e ufficio

Nei 18 giorni tra la cena con l'amico rientrato dalla Cina e il ricovero, Mattia è stato una «mina vagante»

La scia dell'infezione: corse, calcio e ufficio

Se il «paziente uno» fosse stato un pantofolaio tutto sarebbe stato più facile. Invece il primo contagio italiano del coronavirus ha per vittima un uomo di quelli che non sanno stare fermi. Così Mattia nei diciotto giorni che passano tra la cena in cui l'amico manager gli passa la malattia e il giorno in cui viene ricoverato entra in contatto con un numero incalcolabile di persone, tra corse, partite a calcio, le lunghe ore alla scrivania con i colleghi. Non sa di essere un vettore micidiale della malattia che spaventa il mondo, non prende precauzioni, fa la sua vita di sempre: come è giusto, come è naturale. E sparge il virus in ogni direzione. Ormai l'otre dei venti è dischiuso, e non si potrà più richiuderlo.

Tutto comincia nella sera del 27 o 28 gennaio, quando Mattia va a cena con il vecchio amico, il manager della Mae di Fiorenzuola d'Arda tornato una settimana prima dal viaggio in Cina. Chiacchierano a distanza ravvicinata, mangiano insieme. La mattina dopo, Mattia va tranquillamente in ufficio, all'Unilever di Casalpusterlengo. Torna a casa, con la moglie incinta cui trasmette il virus, incontra i parenti, gli amici, i vicini. Per due settimane, fa la sua vita da ipersportivo, incontra centinaia di persone. Il 2 febbraio va a fare una corsa podistica impegnativa, la mezza maratona delle Due perle a Santa Margherita con la sua società sportiva, il gruppo podistico Codogno 82, suda e corre insieme a una folla di altri atleti a distanza inevitabile di alito e di saliva. Domenica 9, altra corsa insieme alla Codogno 82. Venerdì 14 incontra sulle scale un vicino: Mattia è in forma, appare tranquillo. Ora il vicino che lo ha incontrato sta bene, ma la sua fidanzata ha la febbre: e si può immaginare come si senta, in queste ore in cui il confine tra allerta e psicosi è labile

Il disastro accade però l'indomani, il sabato. L'infezione sta già per attaccare i polmoni, ma di mattina Mattia si sente benone, come sempre. Si presenta a un corso di primo soccorso, poi fa una corsetta con gli amici, e il pomeriggio si presenta all'appuntamento che gli sta più a cuore, la partita di calcio a Somaglia, dove la squadra del suo bar, il Bar Picchio, incontra in amichevole l'Amatori Sabbioni. Novanta minuti tirati, più di venti potenziali vittime in campo tra compagni e avversari. Oggi sono tutti in quarantena. Uno di loro, è infettato.

La partita è il punto di svolta, non solo perché allarga quasi a dismisura l'alveo del contagio, ma perché subito dopo Mattia inizia a non stare bene. Non si preoccupa, probabilmente attribuisce il malessere alla stanchezza per la giornata impegnativa. Ma la mattina dopo continua a non sentirsi bene, e infatti non si presenta alla corsa consueta. Ma l'idea del virus non gli si affaccia alla testa, altrimenti come prima, ovvia cautela si allontanerebbe dalla moglie e dal bambino che porta in grembo. E continua a spargere la sua scia: visto che la febbre non scende chiama il medico di fiducia che passa a casa a visitarlo, e che forse resta infetto a sua volta. Quando il 18 lo ricoverano, infetta medici, infermieri, pazienti.

É la storia di un micidiale untore involontario, quella che prende forma man mano che le autorità sanitarie ricostruiscono i movimenti di Mattia nelle tre settimane passate dal suo incontro con il virus.

E insieme alla sua scia c'è quella della moglie, che per il suo stato è meno attiva, ma ha anche lei vissuto, si è mossa, ha incontrato, è andata insieme a Mattia al corso preparto. E dare un volto a tutti gli esseri umani entrati in contatto con la coppia si annuncia, più che difficile, impossibile.

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