Se la libertà di scelta non è ancora un diritto

di Suor Anna Monia Alfieri

L' evidenza della verità non è sempre immediata: la mente umana ha i suoi tempi di elaborazione, ma ha una storia, dei sentimenti, a volte alcune preclusioni e un briciolo di irrazionalità. Non può essere diversamente per la verità relativa al «diritto di apprendere»: la libertà di scelta educativa dei propri figli in un pluralismo formativo, ovviamente è una conditio sine qua non della società civile. L'alternativa è il regime. Se ne è parlato in occasione dell'affollatissimo convegno Una scuola per tutti: il costo standard di sostenibilità che si è tenuto presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, organizzato da Altis Università Cattolica di Milano. Ma anche «il superamento degli stereotipi», come afferma il ministro dell'Istruzione in una lettera aperta al Convegno, fa parte della vita civile. La fragilità educativa di scuola e famiglia, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Né è ammissibile il discorso del genitore Tal de' Tali: «Mia figlia è sfortunata: la maestra di matematica non arriva perché sta al Sud e manda un certificato medico ogni tre giornila preside ha le mani legate: non può mettere la supplente»; oppure: «Mio figlio disabile è stato fortunatissimo: ha cambiato solo tre maestre in cinque anni! C'è di peggio». Neppure è ammissibile il discorso del docente Carmelo Esposito di turno: «Pur di avere il punteggio ho lavorato gratis» (ci si domanda: sotto gli occhi della GdF?). La gente comincia a capire e il ministro rilancia: «Rimuovere gli ostacoli all'uguaglianza è il compito di tutto il sistema della scuola che deve andare avanti unito». La prima uguaglianza è quella davanti alla Legge: «Come previsto dalla Costituzione, le scuole paritarie rappresentano una delle gambe» su cui poggia il nostro sistema educativo, «sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia», gli stessi che devono informare le scuole pubbliche statali. Al genitore consapevole e intelligente non interessa più se la scuola pubblica sia statale o paritaria, né chi la gestisca: purché funzioni e il figlio proceda secondo le direttive di pensiero della famiglia. È un suo diritto, del genitore e del figlio. Ed è normale che un diritto non si paghi, se non attraverso il normale contributo di quelle famose tasse che si devono pagare. Se poi il genitore consapevole e intelligente riesce ad andare oltre i conticini di casa, comprende che lo Stato spende molto per la Scuola che gestisce. Troppo. Soprattutto se fa il confronto con le buone scuole pubbliche paritarie che a costo ben inferiore offrono un servizio scolastico serio con docenti regolarmente pagati, abilitati, formati e perfettamente in linea con principi stabiliti dallo Stato e accolti dalle Famiglie. Sempre con l'occhio al Convegno, il ministro dell'Istruzione Giannini ha pure firmato la prefazione al volume Il diritto di apprendere. Nuove linee di investimento per un sistema integrato, (edizioni Giappichelli 2015), presentato in sala e anche ai 40.000 connessi via web. La proposta: il costo standard di sostenibilità per tutto il sistema scolastico. In pratica ogni alunno sarebbe dotato di un cachet da spendere nella scuola pubblica che egli intende frequentare; non solo si realizzerebbe finalmente la libertà di scelta in un pluralismo educativo, ma lo Stato risparmierebbe fino a 17 miliardi di euro, che non sono noccioline. Il governo ne è perfettamente consapevole. Chiede tempo. Ma non sta a guardare: partirà lo School Bonus. Anche le paritarie possono usufruirne e non è né innovazione, né concessione, ma il riconoscimento di una effettiva libertà di scelta educativa tra le opzioni offerte all'interno della scuola pubblica, statale e non». La scuola non ha colore. Tanto meno condizione sociale o di salute.

«I principi di solidarietà, di integrazione e di inclusione valgono infatti» parola di ministro - per tutti quelli che vivono e lavorano in Italia. «Sarebbe davvero difficile spiegare a un bambino disabile che avrebbe ricevuto meno assistenza solo perché iscritto a una scuola paritaria». No, tu no. E perché? Perché no.

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