Milano «Voglio che Achille sappia che io non ho mai smesso di lottare per lui, che non l'ho mai abbandonato». Alla fine dell'intervista esclusiva al Tg2 Martina Levato abbandona il tono sicuro e lascia che la voce tremi. La cosiddetta «ragazza dell'acido» oggi è una giovane donna di 27 anni che sconta a San Vittore una condanna definitiva a 19 anni e mezzo. Ed è una madre, cui i giudici hanno tolto il figlio appena nato.
Quel bambino, che lei chiama Achille ma che probabilmente ormai ha un nuovo nome, ad agosto compirà quattro anni. È nato quando sia la madre sia il padre, Alexander Boettcher, erano già in carcere. Il piccolo è stato dichiarato adottabile dalla Cassazione, una decisione «nell'interesse del minore» che ha escluso dall'affidamento anche i nonni naturali. I genitori di Achille sono stati condannati, insieme a un terzo complice, per aver sfigurato con l'acido a Milano alla fine del 2014 due ragazzi e per aver tentato di fare lo stesso con un altro. «Il perché di quelle aggressioni? Io oggi penso - continua Martina Levato - che non ci sia neanche una giustificazione di ciò che è successo, che è gravissimo, e tornando indietro non lo rifarei». In carcere la 27enne ha avviato un percorso psicologico. «È nato tutto da una fragilità - ammette -, dall'aver creduto in un amore malato. Chiedere aiuto è quello che ci può salvare e che io non sono riuscita a fare minimamente, né con la mia famiglia né con i miei amici. Io sono andata proprio in un vicolo cieco e sono arrivata a commettere quello che non doveva succedere». L'amore malato e l'amore per Achille: «Quando è nato, mi ha fatto capire cos'era il vero amore, cioè l'amore per un figlio, quello che oggi io ritengo sia l'amore più bello e più grande». L'intervista è quasi tutta incentrata sul bambino. Martina ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo contro l'adottabilità. «Io sono consapevole che devo scontare la mia carcerazione. Però una foto per una madre detenuta, come tante, come me, vuol dire veramente tanto. Non ho potuto avere neanche quella». Il racconto del parto da madre detenuta: «Non ero a fine gravidanza, sono stata portata a partorire in un ospedale che non era quello in cui ero destinata ad andare. Mi hanno indotto il parto e mi hanno sedato in maniera che non potessi minimamente vedere la faccia di mio figlio appena nato. In stato di choc io chiesi: Mio figlio dov'è?, nessuno mi rispondeva. Alla fine venne un medico e mi disse: Lei ha un decreto di adottabilità immediata. Questa cosa non la auguro a nessuno, a nessuna madre seppur criminale.
Addirittura c'è stato un impedimento di allattare al seno mio figlio, non mi capacito di questa cosa, la considero una questione disumana... Chiesi delle foto e mi furono negate. Ho chiesto ai giudici di poter mantenere anche un minimo contatto con lui, ho fatto veramente il possibile in questo senso».
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