Roberto Scafuri
Roma Non è la prima, non sarà l'ultima. La lettera di «raccomandazioni» sulla manovra del presidente Mattarella al governo gialloverde è un «avvertimento» e, allo stesso tempo, un segnale a quel diffuso «partito del presidente» che trova, anche all'interno della stessa alleanza e del Consiglio dei ministri, dei traballanti o sicuri assertori, sia pure oggi in grave difficoltà. Ecco perché lo strumento della lettera, uno dei pochi, se non l'unico, a disposizione del capo dello Stato in questo complicato passaggio politico, si traduce in una serie di considerazioni che possono talora persino sembrare banali o scontate - come quando precisò i margini di applicazione dell'asilo politico nel «dl sicurezza» caro a Salvini richiamando l'art. 10 della Costituzione -, ma che pure hanno l'effetto di rafforzare settori della maggioranza che ben ne comprendono motivazioni e finalità.
Nelle ultime settimane il Quirinale sta cercando di dare risposte e sostegno a diffuse aree del Paese la cui preoccupazione è giunta ormai oltre i livelli di guardia. Settori produttivi e bancari che da tempo lanciano verso il Colle il loro mayday mayday nel mare in tempesta. Un messaggio che suona come un: «Aiuto, fermateli!». Come possa, Mattarella, interpretare questi appelli lo si è visto già in passato: attraverso la moral suasion e, siccome pare non basti più, con il «nero su bianco» (inusuale, in passato, ma che dovremo attenderci sempre più spesso). Modalità che preclude altre forme di persuasione previste dalla Costituzione, di sicuro più drastiche, ma che pure oggi rischierebbero di rendere il Paese ancora più instabile, con dolorose ripercussioni sui mercati. La fase attuale è vista con apprensione, forse addirittura superiore a quell'allarme generico su alcuni atteggiamenti salviniani, perché rischia di investire architravi strutturali dei nostri conti pubblici, a partire dal sistema pensionistico. «Evitare scossoni sistemici» è il nuovo mantra della strategia mattarelliana, perché con il Paese che precipita verso il default ci sarebbe assai poco da scherzare o trastullarsi con misure fantasiose. Sono preoccupazioni che il presidente magari si ritrova a raccontare a destra (Gianni Letta) e a sinistra (Dario Franceschini). Così, se in una prima fase della legislatura sembrava che dal Colle si potessero nutrire maggiori aspettative nei confronti dei Cinquestelle, anche in virtù della loro «prima prova di governo», ora sono i ceti produttivi del Nord e in particolare del Nordest, quelli di appannaggio leghista, a essere in difficoltà: di conseguenza è a loro che il Quirinale finisce per offrire un'importante sponda. Poiché è chiaro che a un giovane che spera di trovare lavoro grazie al reddito di cittadinanza magari lo spread poco interessa, ma per un imprenditore (o investitore) è moneta sonante e possibilità di progettare il futuro. Grazie a questo segnale, che non travalica i limiti che l'«eremita» del Colle si è posto in linea con la Carta, possono uscirne rafforzati anche i margini di trattativa a disposizione del premier Giuseppe Conte, così come quelli dei ministri Enzo Moavero e, soprattutto, Giovanni Tria. Per il quale, però, il cammino resta su carboni ardenti.
Eppure se riuscisse a spuntare, in questa manovra «a geometria variabile», qualche risultato ben visibile in Europa, si trarrebbe il presidente dall'imbarazzo del passaggio successivo: quello di dover comunque approvare, con la propria firma, pur di scongiurare l'esercizio provvisorio, una legge di stabilità improponibile o rovinosa. Porre, anzi imporre, oggi i pilastri di un dialogo, per non dover essere domani «corresponsabile» di un disastro.
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