La sindrome dei Balcani. Il gioco di veti per chi entra in Europa

Le cicatrici della ex Jugoslavia non sono state ancora superate. Il diritto alla memoria dei bosniaci e la lunga tensione tra il Kosovo e la Serbia

Ufficialmente, cinque dei sei Paesi dei Balcani occidentali sono candidati all'ammissione nell'Unione Europea. Non ha tale status solo il Kosovo, la cui indipendenza, proclamata nel 2008, è stata riconosciuta da circa 100 Stati ma non da 5 dei 27 membri dell'Ue (Spagna, Romania, Grecia, Slovacchia e Cipro), mentre la Serbia lo definisce ancora una propria provincia. Tuttavia, l'integrazione europea della regione nonostante i relativi progressi compiuti in particolare da Montenegro, Macedonia del Nord e Albania rimane un obiettivo difficile. Ad ostacolarlo sono sia carenze e ritardi nella piena realizzazione dello Stato di diritto e nella lotta alla corruzione che il mancato allineamento della Serbia alla politica estera e di sicurezza comune, che ha dirette implicazioni in due aree di crisi che rischiano di aggravarsi pericolosamente: da un lato con nuove minacce di secessione della Republika Srpska dalla Bosnia-Erzegovina, dall'altro con il riacutizzarsi della tensione tra Serbia e Kosovo.

In queste settimane il confronto, più che a Bruxelles, si svolge con toni molto accesi alle Nazioni Unite a New York e al Consiglio d'Europa a Strasburgo. All'Assemblea Generale dell'Onu Germania, Ruanda e Bosnia-Erzegovina hanno depositato una risoluzione (poi approvata) per dichiarare l'11 luglio «Giornata internazionale in memoria del genocidio di Srebrenica nel 1995» quando più di 8.000 uomini e ragazzi bosgnacchi furono rastrellati e uccisi da forze serbo-bosniache. Quel massacro è stato giuridicamente definito genocidio dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia e dalla Corte Internazionale di Giustizia; ma il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic, ha parlato di un tentativo di imporre alla nazione serba «una colpa collettiva», forse «a causa delle mancate sanzioni contro la Russia» o «della mancata soluzione della questione del Kosovo».

Da parte sua il presidente negazionista della Republika Srpska, Milorad Dodik, noto per le frequenti esternazioni secessioniste, ha affermato che il popolo serbo dovrebbe essere pronto a «dare una risposta forte» e che la sua entità dovrebbe dichiarare non valide sul proprio territorio le decisioni di tutti gli organismi centrali della Bosnia-Erzegovina. Secondo il rappresentante permanente all'ONU della Federazione Russa, Vassily Nebenzja, l'adozione della risoluzione avrebbe «aperto il vaso di Pandora».

Intanto il 2 maggio il Parlamento serbo ha votato la fiducia al nuovo governo, il cui primo ministro Milo Vucevic (presidente del Partito Progressista Serbo di Vucic e a lui fedelissimo) ha dichiarato che l'adesione all'UE rimane un obiettivo strategico ma che la Serbia non intende «umiliarsi» riconoscendo l'indipendenza del Kosovo e aderendo alle sanzioni contro la Russia per l'invasione dell'Ucraina. Nel governo ha inserito due politici sanzionati degli Stati Uniti: come vice primo ministro Aleksandar Vulin, ex direttore dell'Agenzia di Sicurezza, i cui «atti corrotti e destabilizzanti» avrebbero «facilitato le attività maligne della Russia nella regione», e come ministro senza portafoglio Nenad Popovic, imprenditore coinvolto in operazioni nel settore elettronico dell'economia russa. Nel suo discorso programmatico, Vucevic ha evidenziato anche l'importanza del partenariato con la Cina, che è il secondo investitore nel Paese dopo l'UE; e non è un caso che Belgrado sia stata la seconda delle tre tappe europee della visita del presidente cinese Xi Jinping, con forte simbologia antioccidentale, esattamente nel 25° anniversario del bombardamento da parte della NATO (durante la campagna aerea contro il regime di Slobodan Miloevi per fermare la pulizia etnica nel Kosovo) in cui per errore fu colpita l'ambasciata cinese e rimasero uccise tre persone. Ora in quel luogo è sorto un gigantesco «Centro Culturale Cinese», la cui apertura è stata completata in questi giorni.

Secondo Caroline Ziadeh, che dirige la missione delle Nazioni Unite in Kosovo (UNMIK), il livello di sfiducia reciproca tra Belgrado e Pristina «rimane alto e deve essere affrontato». Il presidente serbo sostiene che gli episodi violenti avvenuti in Kosovo negli ultimi mesi siano la conseguenza della «repressione» dei serbi da parte kosovara; cita in particolare la mancata istituzione dell'Associazione dei Comuni Serbi del nord del Kosovo, sollecitata anche dall'UE, e le restrizioni all'uso del dinaro serbo imposte da Pristina. Il Kosovo accusa invece la Serbia di ingerenze e pressioni sugli stessi cittadini di etnia serba, anche spingendoli a boicottare le elezioni locali e il funzionamento dell'amministrazione nei quattro Comuni dove sono in netta maggioranza.

L'altro fronte di scontro diplomatico è Strasburgo: la Serbia tenta di impedire l'ammissione del Kosovo al Consiglio d'Europa, che come raccomandato dall'Assemblea Parlamentare dell'organizzazione doveva essere decisa dal Comitato dei Ministri dei 46 stati membri nella riunione fissata per il 16 e il 17 maggio. Mentre il Kosovo non può essere ammesso alle Nazioni Unite, per il veto di Russia e Cina in Consiglio di Sicurezza, l'ingresso al Consiglio d'Europa (da cui la Russia è stata espulsa nel marzo 2022) sarebbe considerato di portata storica; ma Belgrado si è spinta fino a ventilare l'ipotesi che, in questo caso, la Serbia esca dall'organizzazione.

Intanto un'esercitazione militare condotta dalla Serbia dall'8 al 21 aprile è stata definita dal ministero della Difesa del Kosovo «una minaccia per la stabilità e la sicurezza nei Balcani» per dimensioni, tempistiche e sistemi d'arma utilizzati; e il rischio che le tensioni etniche possano intensificarsi ha portato il comando supremo delle

forze NATO in Europa ad autorizzare un rafforzamento di personale e armamenti in Kosovo e in Bosnia-Erzegovina, nell'ambito rispettivamente della missione KFOR e dell'operazione EUFOR Althea.

*Senior advisor Fondazione Med-Or

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