Referendum? No, primarie dei democrat

Schlein si gioca tutto: "O diventerò premier o faccio la regista al cinema"

Referendum? No, primarie dei democrat
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Arturo Parisi, braccio destro di Prodi ai tempi dell'Ulivo, l'ha buttata lì con il piglio del politologo in più di una conversazione: «Il vero congresso del Pd saranno i referendum». Nel giorno in cui il «campo largo» riconquista Genova con un nome della società civile e si prende pure Ravenna con un riformista, quelle parole risuonano. E già perché saranno i risultati di quei referendum molto identitari, nati per legare il Pd a doppio filo con la Cgil, a dire se una postura molto spostata a sinistra può essere vincente nel Paese o no. Giuseppe Conte, per fare un esempio, ha preso addirittura una posizione più cauta di Elly Schlein lasciando libertà di voto ai suoi sul quesito sulla cittadinanza.

Già, il «responsum» verrà dai referendum. Anche perché ormai pure i sordi, i ciechi, i tonti in politica hanno capito che il campo largo, il campo progressista o qualsiasi nome gli si voglia dare, può essere competitivo solo se mette insieme tutti i vari soggetti che vanno dal centro alla sinistra. La Storia insegna che nel Paese un simile schieramento guidato sempre da Prodi si è imposto solo in due occasioni: una volta per 24mila voti, un'altra per 300mila. Un'inezia. È un dato che conoscono tutti a memoria, a cominciare dalla Schlein. Per cui l'unità di quella miriade di forze - obiettivo irrinunciabile se si vuole vincere - prevede che si individui un minimo comune denominatore, un collante, uno spirito unitario che superi divisioni ideologiche e pregiudizi personali come avviene nel centro-destra. E visto che l'operazione è complicata lì dentro c'è un grande «movimentare». Fioccano strategie, tattiche e invenzioni. C'è chi farebbe le primarie per la scelta del candidato premier al più presto - la Schlein è di questa scuola - per superare dualismi (con Conte) o per verificare opzioni suggestive come quelle del «Gran Federatore». Altri, invece, escogitano operazioni per dare un ruolo a tutti i galli che ci sono nel pollaio: si parla di due liste proiettate sui territori una guidata al Nord dal sindaco di Milano, Beppe Sala, e un'altra al Sud dal governatore campano, Vincenzo De Luca.

Invenzioni, appunto, magari stravaganti, ma che testimoniano lo sforzo di mettere tutti insieme. Naturalmente i problemi non mancano, a cominciare dalla scelta del nome per Palazzo Chigi specie se ci sarà una riforma della legge elettorale con un premio di maggioranza legato al nome del possibile Premier. La Schlein a quel ruolo ci tiene ma anche Conte accarezza il fascino del «gran ritorno». «Mi gioco tutto, non ho nulla da perdere - ha spiegato la leader del Pd a più di un amico - perché io posso anche mettere nel conto di cambiare vita: o faccio la premier, o faccio la regista al cinema».

Ma a parte le ambizioni di Elly di seguire le orme di Lina Wertmüller o Margarethe von Trotta c'è anche chi preferirebbe all'opzione del nome identitario una personalità che allarghi la capacità di rappresentanza dello schieramento. «Dobbiamo stare tutti insieme - osserva Giovanni Legnini, una lunga carriera nel Pd ed ex vicepresidante del Csm - per aver qualche chance di vincere. Solo che con questi dirigenti, per non abusare della frase di Nanni Moretti, non vinceremo mai. Esempio: dovrebbe essere proprio la Schlein a lanciare la figura di un grande Federatore del campo largo!».

E poi ci sono i personalismi, le rivalità personali, i vecchi rancori che attraversano uno schieramento così largo. Naturalmente «i più politici» stanno provando a superarli. Con Carlo Calenda è complicato visto che la nuova legge elettorale ispirata dalla Meloni punta a dargli la possibilità di correre da solo rispetto al resto del centro-sinistra. Su Renzi, invece, piano piano la diffidenza sta venendo meno. Anche Goffredo Bettini, uno degli ideatori del «campo largo» che non è mai stato tenero con l'ex premier, punta a portarlo dentro. «Renzi - ha spiegato a più di un interlocutore - negli ultimi mesi ha svolto la migliore opposizione alla Meloni. Condivido l'idea di un'alleanza tra diversi e non ho mai parlato di alleanze strutturali. Ci vogliono metodi improntati al pragmatismo e al realismo come insegnava nella pratica politica Togliatti». Ed ancora: «Anche Italia Viva è un elemento essenziale per vincere. Lo farò capire a Conte, dato il nostro rapporto personale, che per ora sfugge le iniziative unitarie per non legittimare Schlein come capotavola.

Ma non penso che voglia essere ricordato come l'uomo che ha fatto vincere la Meloni per dargli altri cinque anni di governo che, sommati a quelli passati, potrebbero essere paragonati quasi ad un regime». Insomma, anche vincere a Genova e a Ravenna non ha risolto tutti i problemi. La strada per un'alternativa di governo a sinistra è ancora lunga e l'epilogo non è scontato.

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