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Smart working nella Pa, chi non è produttivo può tornare in ufficio

Brunetta: necessario il rispetto dei parametri di efficienza. I rischi nel settore pubblico

Smart working nella Pa, chi non è produttivo può tornare in ufficio

Si torna a parlare di pubblica amministrazione, dato che il ministro Renato Brunetta sta predisponendo nuove mosse. Oltre ad annunciare un piano che si propone di ringiovanire la funzione pubblica e operare una modernizzazione della macchina amministrativa con un piano di 150mila giovani assunti ogni anno, il nuovo responsabile del dicastero che si occupa della Pa ha detto la sua sullo smart working, prendendo di petto alcuni luoghi comuni.

Da quando è iniziata la pandemia, infatti, da più parti si sta esaltando questo ricorso del lavoro a distanza. La decisione di tenere a casa molti dipendenti, per evitare la propagazione del Covid-19, è oggi letta come un'opzione in grado di rinnovare il modo di lavorare, favorendo forme più innovative. Ed è vero che vi sono taluni aspetti interessanti del tele-lavoro.

Per molte imprese, ad esempio, esso può permettere significativi risparmi nella locazione degli immobili, dato che se molti impiegati rimangono a casa bastano spazi più ristretti. Per gli stessi lavoratori, c'è un beneficio in termini di tempo, dato che non c'è più l'esigenza di spostarsi. Soprattutto, questo modo di delegare compiti ai dipendenti costringe ogni azienda a valutare il buon funzionamento non sulla base delle ore in cui uno resta in ufficio, ma invece sui risultati conseguiti.

Lo smart working presenta allora aspetti positivi. Eppure è difficile dar torto a Brunetta quando, polemizzando con chi l'ha preceduto alla guida del dicastero (l'onorevole Fabiana Dadone, del movimento Cinquestelle), nega l'utilità di fissare quote di utilizzo per lo smart working, dato che esso «va visto sulla base dell'efficienza e della produttività per i miei clienti».

Questo è il punto. Un simile modo di organizzare gli uffici può andar bene in talune circostanze, ma non in altre. Non a caso molti ora si lamentano di fronte a un'amministrazione che spesso appare irraggiungibile, specie per chi non è a proprio agio con internet e la telematica. Questa organizzazione del lavoro non va allora esaltata né demonizzata, ma va usata ogni qual volta può migliorare il servizio.

Per giunta, quando si parla di smart working in riferimento ai dipendenti statali bisogna avere ben chiaro che molti benefici che esso può arrecare a un'impresa privata non sono così facili da riconoscere in questo caso. In effetti, il vantaggio fondamentale del telelavoro non è tanto nel risparmio del tempo, né nella minore necessità di spazi lavorativi, e neppure nella riduzione dell'inquinamento. Il beneficio principale è che quanti organizzano il lavoro devono soprattutto focalizzarsi sull'efficienza dei risultati, senza accontentarsi di constatare come avviene quando si timbra un cartellino d'ingresso la mera presenza fisica dei lavoratori in ufficio.

Purtroppo, però, tutto questo funziona bene in una struttura privata e quando, di conseguenza, si è in presenza di una certa struttura d'incentivi. Il titolare di una piccola impresa che, d'intesa con i dipendenti, opta per il telelavoro ha tutto l'interesse a verificare che una serie di compiti siano svolti nel migliore dei modi, anche senza uscire da casa. E poco gli importa se questo avviene in otto ore o in molto meno tempo: quella che conta è la qualità del risultato.

Non è necessariamente così, invece, nel settore pubblico, dove non a caso è frequente il sospetto che lo smart working possa in varie circostanze convertirsi in una sorta di assenteismo sotto altro nome.

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