L'Afghanistan è tornato nel baratro dell'oscurantismo: un anno dopo la riconquista di Kabul i talebani hanno cancellato diritti e libertà, imposto al Paese un regime ispirato al fondamentalismo religioso. Le promesse di mantenere lo status quo sul fronte dei diritti civili, in particolare delle donne, di formare un governo inclusivo e non ispirato a una sorta di teocrazia, e dunque di avviare relazioni bilaterali con la comunità internazionale, sono rimaste una promessa. Un esempio è stato l'intervento dei miliziani che ieri hanno sparato in aria per disperdere circa 40 donne che si erano radunate davanti al ministero dell'Istruzione al grido di «pane, lavoro e libertà». Alcune delle manifestanti che sono fuggite trovando rifugio in negozi vicini, sono state raggiunge dai talebani, che le hanno colpite con i calci dei fucili. Il più clamoroso voltafaccia si è consumato a maggio: il leader supremo talebano Hibatullah Akhundzada ha annunciato il decreto che impone alle donne di indossare il velo in pubblico. E non solo: nel testo varato dal ministero della Promozione della virtù e prevenzione del vizio, si invitano le donne «per meglio osservare l'hijab (per «celare allo sguardo») è meglio non uscire di casa se non strettamente necessario». Ma d'altra parte, per andare dove? Non a scuola, perché le ragazze non possono andare alle superiori, non al lavoro perché le donne che ancora lavorano lo fanno in pochissimi ambiti consentiti. E neppure in viaggio da sole, oltre i 70 chilometri si deve essere accompagnate, così come per prendere un aereo. Le centinaia che hanno scelto di sfidare il regime e protestare in strada sono state picchiate, respinte con gli spari in aria, alcune attiviste di punta sequestrate. La restaurazione talebana non si accanisce solo contro le donne.
Nel mirino, avvertono allarmati i rapporti dell'Onu e delle tante ong straniere rimaste sul
campo, anche centinaia tra giornalisti, oppositori, e attivisti. Questi sono nel mirino del temibile Istikhbarat, il direttorato dell'intelligence, accusato dall'Onu per il trattamento inumano dei prigionieri in custodia.
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