Un inventore pazzo o forse criminale, una giovane e avvenente giornalista, un sottomarino messo insieme chissà come e ora affondato, un corpo fatto a pezzi. Sono gli ingredienti di un sea-drama che sembra Ventimila leghe sotto i mari nella versione scritta da Stephen King e che invece è la storia di cronaca che avvince e inorridisce la torpida Danimarca da una dozzina di giorni.
Kim Wall è una giornalista svedese di 30 anni, una free-lance che scova e scrive storie spesso strampalate per il New York Times, per Harper's, per il Guardian. Di lei si possono leggere reportage sul villaggio svedese abitato da soli barbuti, sulla pole dancer obesa, su Gibtown, la città dei freaks. E un freak sufficientemente interessante deve esserle sembrato anche l'altro protagonista di questa storia, il quarantaseienne Peter Madsen, inventore danese bizzarro e ambiguo, che nel 2008 riuscì a costruire novello Capitan Nemo quello che sarebbe dovuto essere il più grande sottomarino autoprodotto del mondo, il Nautilus UC3. Ma un sottomarino non è una coupé, come sfizio ha i suoi lati negativi. Nel 2014 Madsen aveva lanciato un crowdfunding per rimettere in sesto il malridotto natante tirando su appena 6170 dei 50mila dollari necessari e poi si era messo a litigare con i volontari che lo aiutavano nella manutenzione del Nautilus, alimentando la fama di una certa qual maledizione che aleggiava su quel coso lungo quasi diciotto metri e su cui, malgrado la legge danese gli impedisse di portava passeggeri, lui amava sciaguattare a spasso per le lugubre baie attorno a Copenaghen in compagnia di persone coraggiose in cerca dell'esperienza di una gitta sotto il livello del mare.
Peter e Kim erano fatti per piacersi. Lui dropout e strampalato, lei sempre a caccia di follie da raccontare. Kim il 10 agosto alle 19 sale a bordo del Nautilus UC3 assieme a Madsen per intervistare quel bizzarro personaggio. qualche foto li riprende lontani e quasi indistinguibili sulla torre del vascello. È l'ultima immagine della bella Kim: nessuno la vedrà più viva. Il giorno dopo il fidanzato ne denuncia la scomparsa perché non è sbarcata come previsto dal sottomarino di Madsen. A proposito: e Madsen? Viene rintracciato a Copenaghen il giorno dopo, appena prima che il suo Nautilus coli a picco. Racconta di aver lasciato Kim qualche ora prima sull'isola di Refshaleoen. Ma Kim non si trova, eppure lei è una che si muove a suo agio a Cuba, in Cina, persino nella Corea del Nord del suo omonimo e pessimamente pettinato tiranno, figuriamoci se può perdersi nella placida campagna danese, lei che è di Trelleborg, una città del Sud della Svezia che Copenaghen certi giorni la vedi a occhio nudo. Pian piano Madsen cambia versione, ammette che sì, la giornalista è morta a causa di un misterioso incidente a bordo e che lui ha gettato il corpo in mare come si faceva nell'antica marineria. Ma gli inquirenti non sono convinti: dapprima accusano Madsen di comportamento negligente, poi cambiano l'accusa in omicidio colposo. Fin quando un ciclista, il 21 agosto, non trova un corpo umano sulle rive dell'isola di Amager, a sud della capitale danese. Corpo, poi. Quello che resta: un tronco a cui sono stati asportati la testa, le braccia e le gambe. Il dna conferma: è Kim. Madsen si rifiuta di dare ulteriori spiegazioni. Lui è un artista e un inventore, che volete? Ma se le cose sono andate come sembra, difficilmente realizzerà il suo nuovo progetto, essere il primo privato a costruire e lanciare nello spazio un missile.
Kim un progetto lo aveva: raccontare il mondo con i suoi occhi grandi e la sua penna incantata, senza pregiudizi.
Sopravvissuta a guerre, bordelli, villaggi di nudisti e fatta a pezzi nella pancia di un sottomarino nel mare di casa. La sua amica e collega Anna Codrea-Rado implora: «Kim non merita di essere ricordata come la giornalista svedese uccisa come in un sanguinoso horror». E come, sennò?
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