
Il piano in 20 punti presentato congiuntamente da Trump e Netanyahu segna una svolta che ridisegna la geografia politica del Medioriente. L'accordo, che vede il via libera non solo di Israele ma anche dei Paesi del Golfo e di un gruppo eterogeneo di Paesi musulmani, prevede la resa di Hamas entro 72 ore, il suo disarmo e l'ingresso di una forza di sicurezza sponsorizzata da Washington e dalle monarchie arabe. In cambio, Gaza non sarà spopolata né annessa, ma sottoposta a un processo di ricostruzione e deradicalizzazione senza precedenti, sotto l'egida di una nuova "Board of Peace" guidata da Trump stesso.
Se Hamas non accetterà, sarà la stessa coalizione di Paesi islamici a legittimare un intervento militare israeliano, sancendo così l'irrilevanza di Russia e Cina nello scacchiere regionale. Un successo diplomatico che spiana la strada all'espansione degli Accordi di Abramo, persino verso giganti come l'Indonesia, e che consolida la centralità americana nella regione. L'Europa, come da copione, rimane spettatrice silenziosa.
Il contrasto con l'Asia è lampante: mentre in Medioriente Washington tesse la tela della stabilità, i servizi di intelligence trapelati in Australia parlano di una Cina sempre più vicina a uno scenario di invasione di Taiwan. Il Pentagono risponde accelerando la produzione missilistica e blindando l'Aukus, mentre si moltiplicano gli interrogativi sui costi che Canberra sarà chiamata a sostenere, in un contesto in cui già la Nato discute di spese militari al 5% del Pil.
Sul fronte europeo, le parole di Merz "non siamo più in pace con Mosca" certificano la nuova fase di conflitto strutturale. Nel frattempo, Bruxelles valuta tariffe punitive su acciaio e derivati cinesi fino al 50%, un ritorno in grande stile all'economia mercantilista. Un approccio che ricorda il protezionismo imperiale britannico o il rinnovato Monroe Doctrine americano: libero scambio all'interno, barriere ferree verso l'esterno. Il prezzo di questo ritorno al mercantilismo è evidente: inflazione strutturalmente più alta. La quota di beni nel consumer price index sopra il 2% è passata dal 63% nell'agosto 2024 al 76% nell'agosto 2025. Powell lo ammette implicitamente quando riconosce rischi inflattivi al rialzo e occupazione al ribasso, ossia stagflazione. Ma la Casa Bianca e la Fed di Miran insistono nel dare priorità al lavoro, spingendo verso tagli dei tassi in un contesto inflazionistico.
Un mix esplosivo che alimenta la corsa all'oro e che risveglia flussi crescenti verso il complesso delle commodity, come nelle fasi di riaccensione inflattiva del 2009 e del 2020/21. Il messaggio dei mercati è chiaro: con l'ordine liberale in frantumi, la copertura migliore resta l'hard asset.