Lo Stato continua a pagare i furbetti del cartellino

Stipendi (anche se decurtati) ai lavoratori sospesi Che sono 300 e ogni anno ci costano 6 milioni

Lo Stato continua a pagare i furbetti del cartellino

Lo Stato italiano? Cornuto e mazziato. Al danno provocato dal furbetto del cartellino, si aggiunge infatti la beffa di uno stipendio che (se pur decurtato) continua ad essere corrisposto all'imbroglione di turno. Truffatori che, invece di essere licenziati in tronco (ma la legge non lo consente, benché il ministro Madia sostenga il contrario), continuano ad essere retribuiti dalla pubblica amministrazione, mantenendo tutti i diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori.

Quanto ai doveri, neppure a parlarne. Il furbetto può tranquillamente infischiarsene: l'«amico potente» lo ha raccomandato e così è arrivato il posto fisso. Il tizio è diventato intoccabile. Tanto da permettersi di timbrare per se e per i colleghi, svanendo subito dopo come un fantasma. Al massimo la «punizione» può arrivare sotto forma di censura o ammonimento (misure disciplinari che però non toccano il portafoglio). Solo nei casi più gravi le nuove norme prevedono la «sospensione temporanea», l'unica sanzione seria che determina una decurtazione in busta paga che può arrivare fino al 50 per cento. È questa la forma di assenteismo che i giuslavoristi della Cgia di Mestre definiscono «patologica» e che ingloba anche altre forme di «infedeltà aziendale» quali certificati «facili» di malattia, irregolarità nella concessione dei benefici della legge 104, permessi «sospetti» e via imbrogliando.

Al momento sono circa 300 in Italia i dipendenti del pubblico impiego sottoposti a sospensione per motivi disciplinari: furbetti a vario titolo che mediamente continuano a percepire uno stipendio dimezzato pari a circa 20 mila euro all'anno. Se moltiplichiamo questo reddito per 300 - cioè il numero dei dipendenti ora «congelati» - arriviamo a 6 milioni di euro (cifra approssimata per difetto) corrisposti dallo Stato a gente che, in attesa di un ipotetico licenziamento, seguita ad essere pagata senza più neppure il «fastidio» di recarsi in ufficio. Insomma, mentre prima non andavano al lavoro bluffando sulla timbratura del cartellino, ora continuano a non andarci ma nel pieno rispetto della legge. Paradossi della burocrazia, mixati a uno spreco senza fine che l'ultima relazione della Procura generale della Corte dei Conti non ha mancato di evidenziare.

L'assenteismo costa allo Stato quasi mezzo punto di Pil, cioè 7 miliardi. «Il 2016 - sottolineano i magistrati contabili - è stato caratterizzato da fenomeni di assenteismo e indebito riconoscimento dei benefici retributivi o di carriera che hanno riguardato funzionari e dipendenti pubblici». Provare ad andare al contrattacco è impresa ardua, anche se la Corte dei Conti ci sta provando. In che modo? L'arma è quella della notifica del danno erariale nei confronti dei dipendenti (e dei dirigenti «controllori») delle amministrazioni pubbliche dove sono avvenuti casi di «recidivo assenteismo».

Che, come insegna il caso scoperto ieri in una Asl di Gorizia, può essere addirittura un vizio di «famiglia», con tanto di marito e moglie (entrambi medici) che timbravano per poi andarsene tranquillamente a fare shopping insieme. Nelle stesse ore a Napoli, al capo opposto del Paese, 55 loro colleghi facevano la stessa cosa. Quando si dice l'Italia unita. Dal malaffare.

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