Un altro suicidio in carcere. Un'altra vita spezzata per quel tragico mix di fragilità e paura in cui lo Stato non può fingere di non avere responsabilità. Sì perché le carceri italiane sono diventate un inferno e se il tasso di suicidi dietro le sbarre è di quasi 20 volte più alto rispetto alla media italiana, di certo non si tratta di un caso. L'ultimo a togliersi la vita è stato Alessandro Gaffoglio, 25 anni, in carcere a Torino dopo una rapina a un supermercato a San Salvario. Domenica scorsa si è legato un sacchetto di plastica intorno alla testa, poi si è nascosto sotto le coperte. Quando gli agenti di polizia penitenziaria sono intervenuti non c'era più nulla da fare. Un modo terribile per compiere un atto estremo. Così come pochi giorni fa accadde a Donatella Hodo, suicida a 27 anni con le esalazioni del fornelletto. Il caso fece scalpore, soprattutto per le parole di Vincenzo Semeraro, il giudice di Sorveglianza del Tribunale di Verona, che parlò apertamente di «fallimento del sistema» quasi a scusarsi dell'accaduto. Ma anche in questo caso le polemiche non mancano.
Quella di Alessandro infatti, proprio come per Donatella, è una storia di fragilità e sofferenza intima. Lo scorso due agosto si è reso protagonista di una rapina in un supermercato. Fermato e arrestato anche se incensurato, subito l'arresto aveva già tentato il suicidio. Qualche giorno nel reparto sanitario in regime di massima sorveglianza poi, dopo valutazioni psichiatriche, di nuovo in carcere, in una cella singola, con sorveglianza minima. Sul fatto è stata aperta un'inchiesta anche perché i familiari del ragazzo non erano stati informati del primo tentativo di suicidio e chiedono di accertare se le condizioni mentali di Alessandro siano state sottovalutate.
In attesa di risposte, resta comunque drammaticamente attuale il tema delle carceri in Italia che va oltre il macabro conteggio dei suicidi nel 2022 già arrivato a quota 53. Il dramma quotidiano è spesso simile per i detenuti ma anche per chi li controlla, guardie spesso sotto numero in carceri costantemente sovraffollati: «Ogni santo giorno, uno di noi viene aggredito con conseguenze fisiche anche gravi», denuncia Domenico Benemia, agente della polizia penitenziaria di Monza. A tutto questo si sommano fattori troppe volte poco considerati, dal caldo record di questa estate ai problemi mentali il cui diritto ad una corretta assistenza sanitaria spesso è pressoché assente. «Apprendo con dolore di un nuovo suicidio in carcere, a Torino. Il Ministero, l' Amministrazione penitenziaria molto stanno facendo per migliorare la qualità della vita e del lavoro nei nostri istituti, ma il dramma dei 51 suicidi dall'inizio dell'anno riguarda tutti», ha commentato il ministro della Giustizia Marta Cartabia.
Ma cosa si può fare in concreto? Il dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha di recente varato delle linee guida per un «intervento continuo» per la prevenzione delle persone detenute. In campo staff multidisciplinari, dal direttore agli psicologi, per mappare le situazioni a rischio di ogni istituto carcerario e individuare protocolli operativi ad hoc.
Tra le proposte, anche quella del cappellano del carcere di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, che chiede di dotare le celle di telefono per superare il limite imposto di 10 minuti di chiamata a settimana o poco più, sulla scia di quanto accada in molti Paesi europei. «Quando il loro cuore è sofferente possono ascoltare qualche voce amica cui il personale di sicurezza non può supplire», ha detto. Un'idea. Una piccola luce in una realtà fatta di paura e dramma quotidiani.
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