
Ambasciatore Giampiero Massolo, la tregua Israele-Iran ha già vacillato. Reggerà?
"In Medioriente, così come un po' in tutte le crisi alle quali stiamo assistendo, non ci sono soluzioni definitive a causa delle forti contrapposizioni di interessi fra le parti. Si tratta di accontentarsi realisticamente di passare da un assetto a un altro, da un esito a un altro, e di capire che abbiamo a che fare con soluzioni provvisorie, nella speranza che queste siano il meno sfavorevoli possibile all'Occidente. Se il cessate il fuoco reggerà, il successo sarà di Trump".
L'opinione pubblica è disorientata. C'è l'impressione che i leader del mondo azzardino scelte in grado di destabilizzare più che di stabilizzare.
"Malgrado le apparenze, nulla di ciò che accade è privo di razionalità. È tutto frutto di calcoli che hanno alla base il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali di tutte le parti coinvolte. I calcoli possono essere sbagliati, ma non sono mai il frutto di decisioni puramente irrazionali o prese sulla spinta delle emozioni".
La questione del nucleare iraniano era così urgente?
"Era necessario arrivare a un accomodamento sul tema. Se Teheran avesse progredito rapidamente verso la bomba, sarebbe stata una minaccia esistenziale per Israele e per la regione. Si sarebbe innestata una corsa all'armamento nucleare di cui non si sente affatto il bisogno in zone così delicate del mondo".
Se la tregua funzionerà, quali saranno gli obiettivi raggiunti?
"Se reggerà, avremo fotografato la seguente situazione: un Iran troppo debole per esporsi ulteriormente agli attacchi israeliani ed eventualmente americani; un Iran impegnato a riparare i danni e a procedere a un riassetto interno, perché l'azione militare ha mostrato varie contraddizioni in quel regime; e terzo - da non sottovalutare - un Iran forse più disposto a negoziare, cosa auspicabile visto che con ogni probabilità è riuscito a conservare almeno parte di quell'uranio che aveva proceduto ad arricchire nel tempo e dunque un Iran con cui sarà necessario trovare un'intesa politico-negoziale".
Cosa ha spinto gli Stati Uniti all'intervento?
"Fin dall'inizio, gli Usa erano riluttanti a intervenire, per non smentire le promesse elettorali di Trump e per le divisioni nella sua base elettorale: non voleva restare impelagato. Ma il presidente Usa ha scelto la via dell'intervento mirato, puntuale e chirurgico, con l'obiettivo di indurre l'Iran a una via negoziale. E perché - consapevole che il premier israeliano Netanyahu da solo non ha le capacità necessarie per distruggere in maniera significativa gli impianti di arricchimento iraniano - ha voluto evitare il rischio che il conflitto si protraesse".
C'è un disegno di lungo termine?
"A Trump non dispiace che, nella regione, Israele sia in situazione di vantaggio. È positivo per l'Occidente. Ma l'obiettivo strategico di fondo del presidente americano è stabilizzare l'area e possibilmente vincere il Nobel per la Pace. Per farlo, serve coinvolgere Arabia Saudita e Paesi del Golfo attraverso la ripresa degli Accordi di Abramo. Questo richiede che Israele non stravinca e vi sia qualcosa anche per i palestinesi".
Quali prospettive per i palestinesi?
"Non c'è possibilità di tornare alla logica degli Accordi di Abramo se non si trova modo di concedere un esito ai palestinesi, che non sia solo una prospettiva di vita migliore. Serve un gesto politico, tutto da identificare e negoziare, nei loro confronti".
Si teme un rischio Iraq o Libia.
"Destabilizzare con le armi un Paese come l'Iran è molto difficile da fare soltanto con gli attacchi aerei. Ci vorrebbero truppe di terra che nessuno è disponibile a mandare. E ci sarebbero soprattutto conseguenze rilevanti e pericolose considerata la pluralità di etnie che compongono il Paese, un apparato militare industriale che venderebbe cara la pelle e il rischio di un esito destabilizzante come quello in Libia e in Iraq. Ecco perché alla fine nessuno ha voluto correre il rischio di un'implosione del regime provocata da un'azione militare".
Perché allora i riferimenti al cambio di regime e gli attacchi israeliani ai suoi simboli?
"Gli attacchi hanno avuto la finalità di un avvertimento. Il messaggio di Israele è il seguente: se reagite troppo, noi siamo in grado di arrivare ai vertici del regime e non ci fermeremo di fronte all'ipotesi della destabilizzazione. Ma è evidente che nella regione e a Washington non la pensano come Israele".
Gli iraniani anti-regime non rischiano di sentirsi traditi?
"L'attacco esterno ha provocato un ritorno di nazionalismo.
Non c'è stato quello che taluni in Israele avrebbero pensato, cioè l'idea che il regime sarebbe caduto per insurrezione. C'è sicuramente tantissimo malcontento in Iran, ma non si è tradotto finora in un'opposizione organizzata".