Le proposte tributarie di Renzi suscitano un misto di stupore e di tenerezza, perché lui fantastica di mirabolanti riduzioni fiscali per il 2016-2018, mentre i suoi sherpa hanno il compito di reperire più di 10 miliardi per il 2016 con tagli di spese, non graditi alla maggioranza, per evitare che scatti la clausola di salvaguardia di aumento dell'Iva. Come ha scritto Sallusti, Renzi non è credibile perché ha fatto troppe grandi promesse che non è riuscito a mantenere. Adottando il principio di Schauble e di Angela Merkel per i greci, si può dire che Matteo Renzi ha distrutto il suo patrimonio di fiducia.
Tuttavia entriamo nel merito ed esaminiamo il suo libriccino di sogni fiscali di mezza estate. Per il 2016, lui progetta d'abolire la tassa sulla prima casa, copiando il programma di Berlusconi, che la tolse nel 2008. Ma il «primo della classe» non era Renzi? Ora va a copiare un tema di Berlusconi, bocciato nel 2011 come inadatto a gestire l'Italia perché aveva rinunciato a un gettito sulle case di 4 miliardi? Non ci era stato spiegato, con il supporto di esperti europei e dell'Ocse, che questa tassazione va bene perché «colpisce una ricchezza statica», mentre l'esonero crea un privilegio per chi ha la casa rispetto a chi è in affitto? Berlusconi, per altro, aveva la colpa di aver adottato la tesi del pensiero liberale sociale, secondo cui la casa è un bene essenziale per la famiglia e il risparmio per farsela va favorito, sia per diffondere la proprietà anche fra chi ha un basso reddito sia per tutelare la famiglia stessa. Fra le ragioni tecniche per abolire questo tributo avevo messo in luce che il gettito di 4 miliardi a carico di 18 milioni di proprietari comportava un prelievo medio per ciascuno di poco più di 200 euro, affaticando il fisco e addossando a una miriade di contribuenti costi per calcolare e pagare il tributo in due rate superiori alla somma dovuta. Adesso con Renzi, in luogo dell'Imu sulla prima casa, c'è la Tasi, che grava pro quota anche sull'inquilino e rende solo 3,4 miliardi con un numero ancor maggiore di piccoli contribuenti. Il premier guarda al numero di persone che può esonerare e alla loro categoria sociale, che riguarda il ceto piccolo e quello medio piccolo. Un bonus di larga distribuzione per rialzare la sua popolarità. Ma l'Imu adesso dà ai Comuni 25 miliardi e poiché gli enti locali non vogliono perdere quei 3,4 che spettano loro c'è il rischio che addossino maggiori prelievi agli immobili tassabili. Ciò è già è accaduto nel 2013 quando Letta abolì l'Imu sulla prima casa e i Comuni si rifecero con aumenti di aliquote e revisioni delle classi catastali. Ora essi potranno avere l'arma dell'aggiornamento del catasto. Seconde case, immobili in affitto e di imprese sono a rischio di altri aumenti. Ogni tanto si annuncia la tassazione delle «pensioni più alte» (soglia che varia fra i mille e tremila euro mensili). Ciò è già accaduto. Del resto, ad esse è stata negata la rivalutazione monetaria per «un principio di equità» (sic). Renzi annuncia che dal 2016 i pensionati a basso reddito avranno il bonus di 80 euro. C'è da augurarsi che non si pensi di recuperare il gettito necessario a carico delle pensioni «superiori». Il ceto medio, definito «ricco» ma in realtà impoverito, viene sempre più compresso da pesi fiscali. Disorientato, riduce i consumi. Investe, se può, all'estero. I controlli fiscali bancari gli stanno addosso. Per l'Irpef Renzi annuncia (a partire dal 2018) una rimodulazione di aliquote e di detrazioni iniziali che favorisce i redditi medio bassi e lascia intatte le altre aliquote, sicché nel complesso la progressività sui redditi medio alti si accentuerebbe. Come ciò aiuti la crescita è un mistero.
Infine, c'è il proposito di ridurre le aliquote Ires (imposte sul reddito delle società) e l'Irap, che è il più vago.
Quest'anno l'Irap è pienamente detraibile dall'Ires, ma l'aliquota è stata aumentata al 3,9. La domanda finale è: Renzi fa il miracolo della «moltiplicazione dei pani e dei pesci» o scambia la politica per incassare più voti per una politica fiscale pro crescita?
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