Prima della Scala

Il teatrino rosso della Scala di Sala

Il sindaco sfida La Russa: "Sto con Segre in platea". Alla fine il caso rientra: tutti nel palco reale

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E alla fine tutto è dovuto cambiare, per poter restare come era prima. Ma un po' meno di prima, perché come in un vecchio disco, il graffio della puntina resta e ad ascoltarlo di nuovo la musica non è più la stessa. Nemmeno quella del «Don Carlo», opera che racconta la solitudine del potere. Ma, per come si era messa, era un po' troppo: con il sindaco di Milano Giuseppe Sala che scendeva dal palco reale per raggiungere in platea la senatrice a vita Liliana Segre, abbandonando Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, e i ministri.

Così pareva ieri pomeriggio, con la Scala tinta di rosso e non nei velluti delle poltroncine dalle quali questa sera pochi privilegiati (e molti alle 18 su Rai1) assisteranno al capolavoro di Verdi con un cast stellare nella Prima di Sant'Ambrogio. Perché se Thomas Mann assicurava che «tutto è politica», vien da pensare che si riferisse a ben altro che ai politicanti che trasformano anche la Scala in un'arena da corrida.

I fatti dunque. Trascurabile la miccia (in verità a salve) accesa in mattinata dai rappresentanti della Cgil e della sezione dei partigiani dell'Anpi Scala che rifiutavano di salutare il «fascista» La Russa. Perché il sospetto, anzi la certezza che quest'anno non sarebbe andato tutto liscio, era venuto scoprendo che, in modo assai irrituale, sia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che la premier Giorgia Meloni avrebbero disertato il 7 dicembre. Non succedeva da tempo e già qualcuno leggeva in filigrana quantomeno la volontà di marcare la differenza fra i lunghi applausi con cui erano stati salutati l'anno scorso, con a fianco pure la presidente del parlamento europeo Ursula von der Leyen, e l'accoglienza più fredda che avrebbe accolto il vicepremier Matteo Salvini, La Russa e i ministri Gennaro Sangiuliano e Maria Elisabetta Alberti Casellati. E, invece, è andata molto, ma molto peggio. Perché al cortese invito di La Russa perché fosse accolta nel palco reale per dimostrare la vicinanza dell'Italia a Israele, Liliana Segre aveva detto di preferire la platea. Dove ci sarà anche l'altro senatore a vita, Mario Monti. Abbastanza perché Sala si affettasse a dire che l'avrebbe raggiunta, abbandonando La Russa e i ministri. Un fatto ancor più grave perché il sindaco di Milano è di diritto il presidente della Fondazione Scala ed è dunque il padrone di casa. Ed è come se dopo aver invitato gli ospiti a cena, uno comunicasse di voler mangiare in cucina insieme ad un altro commensale.

Palese dunque, nonostante le smentite, la volontà di Sala di isolare La Russa e ministri che tra l'altro finanziano abbondantemente il teatro con i fondi del Fus, con grande ira di tanti altri che rispetto alla Scala restano sempre figli di un dio minore. Per non dire che proprio oggi la stessa Meloni non vedrà il «Don Carlo», ma verrà comunque a Milano per portare a Regione Lombardia 700 milioni di euro per opere e infrastrutture. Ma vincente il dribbling di La Russa che ha marcato a uomo: «Se la senatrice Segre rimarrà in platea, io andrò con lei: per essere coerente con la mia idea». Con il rischio che dopo l'overbooking degli scorsi anni, questa volta si sarebbero dovuti vendere i biglietti last minute. E magari low cost.

«Non ho nessuna intenzione di fare polemica - assicurava Sala - Però voglio Segre vicino a me. Il mio vuole essere un messaggio politico di vicinanza alla senatrice». Tutto legittimo, ma sarebbe anche legittimo che i milanesi, tutti i milanesi, pretendessero dal sindaco che, una volta eletto, tutti li deve rappresentare, di rendere il dovuto onore a La Russa: la seconda carica dello Stato che questa sera rappresenterà la prima, il presidente Mattarella. Perché essere sindaco vuol dire rinunciare alla propria visione di parte e vestire i panni dell'uomo delle istituzioni. Anche se c'è la senatrice Segre.

E per quanto riguarda il «messaggio politico», quello che tutti i milanesi aspettano da Sala è sentirsi dire che la loro città non è più, come da classifiche, la meno sicura d'Italia.

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