Il tempo delle scelte definitive: quei piani pronti da dicembre, poi Bibi da Trump a febbraio. Venerdì la svolta con l'attacco

Netanyahu ha convinto l'alleato con le prove sui progressi del programma atomico. E i successi dei raid fanno intravedere agli Usa la possibilità del nuovo ordine dell'area

Il tempo delle scelte definitive: quei piani pronti da dicembre, poi Bibi da Trump a febbraio. Venerdì la svolta con l'attacco
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Trump ha cominciato a prendere decisioni definitive quando, da venerdì scorso, le notizie delle azioni di Israele nella guerra contro l'Iran si sono disegnate come uno stupefacente successo a fronte del potere più abominevole del mondo. È qui che Trump, al di là della sua indubbia simpatia per Israele, ha cominciato a connettere la sua determinazione a costruire con la sua presidenza una nuova condizione mondiale segnata da una pax americana, con la scelta israeliana di liberarsi dall'atomica e dall'aggressività degli iraniani. È rivelatore che nella breve conversazione di ieri coi giornalisti Trump abbia pronunciato la frase che caratterizzò la decisione degli Alleati di fronteggiare il nazifascismo: dall'asse, dissero, nient'altro che una "resa incondizionata", lasciare le armi e il potere. Per Khamenei, dunque, rinunciare all'egemonia atomica e ideologica, abbandonare la minaccia di distruggere Israele e il potere con cui schiaccia il suo popolo.

L'attesa è grande, la decisione non è ancora presa: le bombe di profondità americane potrebbero risolvere il problema della più articolata e sofisticata centrale nucleare, quella di Fordow. Gli israeliani potrebbero anche risolvere da soli con soluzioni speciali, con un funambolismo eroico che resterà nella storia, come la battaglia di Maratona o le imprese garibaldine. È realistico anche pensare che comunque adesso che il regime sia agli sgoccioli: il cerchio del potere di Khamenei, e i suoi militari e le Guardie della Rivoluzione quasi distrutti, i suoi missili per il 90% a pezzi per i bombardamenti o verso Tel Aviv per il sistema di difesa israeliano. Trump sta valutando il valore di quanto questo significhi. Risorse energetiche, del porto di Bandar Abbas, Russia, Cina, persino Corea del Nord che ora minaccia di intervenire...

Trump da venerdì probabilmente ha cominciato a immaginare che la sconfitta iraniana può essere la grande occasione per la svolta mondiale cui ambisce. I piani di Israele si definiscono a dicembre, a febbraio Bibi porta a Washington le notizie sulla nuova rincorsa al nucleare ormai irreversibile. Trump incarica Witkoff per verificare la possibilità di un accordo, e insiste, manda persino una lettera a Khamenei sul suo desiderio di pace. Mai, però, come avrebbero voluto tante testate anche italiane, il tentativo di Trump si è disegnato come fastidio o rifiuto nei confronti di Israele. Trump ha sempre lasciato la porta aperta all'idea che forse fosse impossibile trattare con gli iraniani: mentre ci prova e ci riprova, l'8 giugno a Camp David, informato dalla Cia sulle intenzioni immediate di Israele, lascia aperta la porta. Dopo una lunga telefonata fra Bibi e Trump alla fine il presidente dice ai suoi amici: "forse lo dovrò aiutare".

Khamenei il 4 giugno aveva ancora una volta rifiutato la condizione essenziale dei negoziati: cessare di arricchire l'uranio. Anche ieri ha seguitato a minacciare, insieme, Netanyahu e Trump. Forse in questo momento non è stata per lui una buona idea. Chi, come Trump, coltiva il sogno di un'impresa eccezionale, di fronte a quel che fa Israele per vivere non può che trasecolare. Il suo ambasciatore Huckabee gli ha twittato: "Nessun presidente nella storia si è trovato nella tua posizione. Nessuno, fuorché Truman nel 1945.

Non mi spingo a cercare di persuaderti. Solo a incoraggiarti. Credo che ascolterai il cielo, e quella voce è molto più importante della mia o di chiunque". Romantico? Messianico? Comunque, molto significativo. Trump l'ha ritwittato.

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