Passati esattamente 75 giorni dalle elezioni, quello che viene annunciato come il governo del cambiamento, se non addirittura della rivoluzione, sembra impantanato nei soliti e usurati rituali della vecchia politica. Al punto che questa presunta Terza Repubblica pare per molti versi ricordare la Prima. Questo, almeno, racconta la lunga e bizantina trattativa in corso ormai da settimane tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Che hanno riproposto molti dei cliché cari agli anni Ottanta: dai summit a ripetizione tra Roma e Milano, con tanto di photo opportunity al tavolo ovale del Pirellone affollato di soli uomini, fino al gioco del cerino sui nomi per Palazzo Chigi, buttati in pasto con grande abilità comunicativa solo per essere bruciati. Così, incredibile ma vero, dopo due mesi e mezzo e ripetute assicurazioni sull'essere pronto al passo «di lato», Di Maio torna ad essere in pole per la premiership. «Non so se farò il presidente del Consiglio oppure se entrerò nella squadra di governo», diceva ieri come fosse appena atterrato da Marte. Perché solo 24 ore fa aveva escluso di fare il premier, mentre qualche settimana prima aveva in diverse occasioni promesso di farsi da parte pur di far nascere un governo. Invece, 75 giorni dopo il voto del 5 marzo che ha terremotato il panorama politico italiano, Di Maio torna esattamente ai giorni in cui non c'era alternativa alla sua premiership. Se fosse una partita a Monopoli, si potrebbe dire che ancora una volta il leader dei Cinque stelle è finito in prigione senza passare dal via. Come fossimo nel Giorno della marmotta, con gli avvenimenti che si ripetono uguali a se stessi in un eterno loop.
Come andrà domani, quando lui e Salvini saliranno al Colle per presentare le loro conclusioni e - finalmente - il loro candidato premier a Sergio Mattarella è davvero difficile da prevedere. Molto, infatti, dipenderà dalla disponibilità del capo dello Stato ad accettare nomi anche non di altissimo profilo (visto che non è facile trovare qualcuno che abbia un curriculum importante e che sia disponibile a caricarsi un programma già scritto da altri). Così non fosse, il Colle potrebbe invitare i due leader a farsi carico direttamente del problema. E a quel punto la scelta non potrebbe cadere che su Di Maio, forte del 32% del M5s contro il 17% della Lega. È questo, d'altra parte, lo scenario su cui punta il capo grillino. Con la palla che passerebbe a Salvini, costretto a decidere se far saltare il banco oppure piegarsi alla premiership di Di Maio.
È su questa partita, sul destino di uno - che evidentemente «non vale uno» - che si infrange la narrazione dei due leader. Che da due mesi e mezzo sono alle prese con ritualità bizantine degne della Prima Repubblica per giustificare davanti al proprio elettorato un'alleanza che fino a 5 marzo avevano sempre categoricamente escluso. E per cercare di far passare in secondo piano il fatto che la lunga trattativa tra M5s e Lega tutto è stata fuorché trasparente.
Di qui l'idea della consultazione su Rousseau e ai gazebo, un modo per avere una legittimazione che di fatto manca. In attesa che si compia la vera partita che sta paralizzando la politica italiana: quella per Palazzo Chigi.
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