nostro inviato a Napoli
È un f ilo tenue che monta, che s'aggroviglia fino a diventare nodo scorsoio, quello che proietta trionfalmente l'anti-candidato Vincenzo De Luca alla carica di presidente della regione Campania. Una vittoria cercata, pianificata, fortissimamente imposta persino a Matteo Renzi, in un primo momento, e avanzata in sfida aperta con le norme vigenti. Il vantaggio sul rivale uscente Stefano Caldoro si fa via via più sostanzioso nelle ore notturne, fino a oltre il 41 per cento (poco sopra il 40 per cento il totale delle liste di sostegno). Ed è più o meno soltanto allora che l'ex sindaco-sceriffo di Salerno compare alla Stazione Marittima del porto di Napoli per l'abbraccio festante del proprio comitato elettorale, consumando da capopopolo gli esiti della battaglia legal-politica.
La sagoma del governatore «fantasma» per legge entra così a Palazzo di Santa Lucia come quella di Banquo al banchetto di Macbeth, che in questo caso assumerebbe le sembianze del Matteo che siede a Palazzo Chigi. Una comune foga per il potere che si riflette, come in un gioco di specchi, nei mille paradossi di questa elezione, a partire da quello che prevede l'accertamento della «decadenza» di De Luca da parte dello stesso presidente del Consiglio già nelle prossime ore. Ma non ci sono termini prefissati, non ci sono indicazioni precise, se non le oscurità lacunose della legge Severino e l'ordinanza della Cassazione che le registra, stabilendo qualche automatismo controverso e precise competenze per il tribunale ordinario. Sarà a quest'ultimo che il neo-eletto finirà per dover proporre la propria opposizione al provvedimento di decadenza. Eppure nelle more dei tempi giudiziari, del vuoto di potere nel quale precipita ora la Campania, tutto può accadere. E De Luca tenterà senz'altro di forzare ancora la mano, si dice varando a tempo di record la propria giunta regionale e nominando un vicepresidente «di sicurezza» (si dice il deputato Fulvio Bonavitacola) cui lasciare le consegne durante il periodo di sospensione. Forzature su forzature che di sicuro non faranno bene alla Campania, e che renderanno ancora più intricato e oscuro il labirinto predisposto da una normativa sbagliata, ma dichiarata tale soltanto ora che se ne ravvedono le assurdità a carico di un uomo del Pd.
Certo, gli oltre cinque milioni di cittadini campani chiamati alle urne avrebbero potuto regolarsi diversamente. Avrebbero forse dovuto reagire a un'immagine del Sud che Caldoro non aveva esitato a definire «deprimente e superata», se solo non fosse intervenuta fuori tempo massimo l'effetto Rosybindi, una specie di jolly all'incontrario: messo in campo per nuocere all'inviso Renzi, è stato però recepito dalla maggioranza degli elettori del Pd come estremo e forsennato atto d'arroganza. Così da concedere a De Luca un'insperata aura di «martire» che ha finito per vanificare la lunga rincorsa di Caldoro, impantanatosi intorno al 36 per cento.
Alimentando, da un lato, il 20 per cento circa dei Cinquestelle, e il 50 per cento di astensionismo (dato record per la Campania) e, dall'altro, lo scatto finale di De Luca, fortissimo in provincia grazie all'accordo con l'ex arcinemico De Mita (passato da un giorno all'altro dal sostegno a Caldoro a quello del rivale, tanto per non smentire una parabola politica esemplare, nella ricerca del potere sotto qualsiasi forma). In questo tumultuoso «otto settembre» della Campania, la guerra continua. E ancora una volta si stenta a trovare una strada che non porti dritti all'inferno.
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