I segreti della magistratura

Tinti, una carriera tra la toga e l'editoria. Indagò su Telekom Serbia e fondò "Il Fatto"

L'autore di "Toghe rotte" ha firmato pochi giorni fa un appello su Palamara

Tinti, una carriera tra la toga e l'editoria. Indagò su Telekom Serbia e fondò "Il Fatto"

L'ultimo prova di anticonformismo l'ha data pochi giorni fa: la sua firma, pesante, compare fra le 129 di magistrati che chiedono in una lettera aperta al capo dello Stato di non far cadere il sipario sul caso Palamara. Ma vogliono risposte vere, non preconfezionate, e riforme radicali per cambiare un sistema che non funziona.

Bruno Tinti se ne va a 78 anni, portato via dal Covid, dopo una vita e una carriera nel segno dell'indipendenza. Da qualche anno era lontano dai riflettori, ma nel 2007 aveva conosciuto la notorietà scrivendo un libro a suo modo profetico: Toghe rotte. Un viaggio senza sconti dentro una giustizia che non funziona, affogata dalle troppe leggi, dalle contorsioni di un legislatore che dal 90 in poi aveva trasformato il codice in un guazzabuglio. Ma frenata anche dallo strapotere delle correnti e dai meccanismi corporativi.

Non aveva peli sulla lingua, Tinti, prima procuratore capo a Ivrea e poi procuratore aggiunto a Torino con inusuale e profonda padronanza dell'ingarbugliatissimo sistema tributario. E riteneva che la classe dirigente si fosse assicurata consapevolmente l'impunità trasformando il sistema penale in un rompicapo. In questo le sue critiche feroci e a tratti quasi apocalittiche assomigliavano a quelle di colleghi celebri come Piercamillo Davigo. Ma il fustigatore Tinti, per lunghi anni libero battitore dalle colonne del Fatto Quotidiano di cui fu anche azionista, non si fermava alla denuncia della controparte'. «Per 240 pagine - minimizzava l'autore - Toghe rotte parla dei guai della legge, nelle ultime dieci racconta la casta della magistratura». Le correnti, le degenerazioni, il carrierismo. Insomma, il sistema Palamara prima di Palamara, quando l'Associazione nazionale magistrati era un monolite, cementato dal verbo dell'antiberlusconismo.

Anche per questo, nel 2008 Tinti aveva lasciato la professione passando, poco più che simbolicamente, nei ranghi dell'avvocatura.

«Era un giudice non allineato, eterodosso - spiega Giuliano Castiglia, gip a Palermo e membro del comitato direttivo centrale dell'Anm, anche lui fra i 129 ribelli' - lontanissimo dagli intrighi che fulminava con i suoi corsivi. E voleva rompere certi rituali e logiche di appartenenza. Si vantava di essere il primo ad aver proposto il sorteggio per la candidatura al Csm, così da spezzare il monopolio delle correnti».

Ma non perdonava nemmeno le acrobazie e i ghirigori di normative contorte e farraginose. «Per cambiare - ripeteva - basterebbe andare alla stazione di Lugano dove si parla italiano e comprare un codice di procedura penale. Poi - aggiungeva - si dovrebbe scrivere una legge di due articoli. Il primo: questo è il nuovo codice della repubblica italiana. Il secondo: è vietata ogni modifica del testo di cui all'articolo 1»

Il suo immancabile papillon aveva visto giusto.

E forse la sua unica colpa è quella di aver precorso i tempi con troppo anticipo.

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