Le toghe difendono il velo: «Illegittimo non assumere le donne che lo indossano»

La Corte d'appello di Milano dà ragione a un'italiana di origini egiziane scartata al colloquio: verrà risarcita

Una donna non può essere esclusa da un posto di lavoro a causa del velo. Il diritto all'identità religiosa prevale sulle esigenze «estetiche» dell'azienda. La Corte d'appello, ribaltando un verdetto di primo grado del tribunale di Lodi, ha dato ragione a un'hostess italiana di origini egiziane che, nel corso di una selezione, era stata respinta da una società di ricerca del personale «a causa della sua decisione di non togliere il velo». La condotta della società è stata considerata discriminatoria e quindi illegittima. E la giovane risarcita con 500 euro per il «danno non patrimoniale subito».

La vicenda è iniziata tre anni fa quando Sara rispose ad un annuncio con cui l'agenzia di Imola cercava hostess per l'attività di volantinaggio al Micam, evento in calendario alla Fiera di Rho. La giovane, che è nata in Italia, inviò una foto nella quale indossava lo hijab, il velo che incornicia il volto coprendo capelli, orecchie e collo. Poi lo scambio di mail, con la società che chiedeva se fosse disposta a scoprire il capo lasciando vedere i capelli. La ragazza spiegò di portare il velo «per motivi religiosi» e dichiarò che non aveva intenzione di toglierlo, al massimo abbinarlo alla divisa. Il rifiuto di offrire quel lavoro ha innescato la vertenza giudiziaria, in cui la società si è difesa rivendicando il diritto di selezionare le lavoratrici sulla base di esigenze estetiche e di immagine, affermando che «i clienti non sarebbero mai stati così flessibili». La tesi della ragazza, sostenuta dai legali dell'Associazione per gli studi giuridici sulla immigrazione, è che quando un requisito coinvolge il fattore religioso allora gode di una particolare tutela e può essere condizione di assunzione solo quando è essenziale al lavoro. Il sacrificio imposto deve essere proporzionato all'interesse dell'azienda. I giudici lodigiani avevano rigettato la richiesta della ragazza ritenendo che tra i requisiti richiesti per ottenere il lavoro c'era quello di «capelli lunghi e vaporosi» che coperti dal velo non sarebbero stati visibili. «La prestazione di lavoro - era stato scritto in sentenza, così come riportata - non si esaurisce nel distribuire volantini ma nel farlo prestando la propria immagine con le caratteristiche volute dal datore di lavoro».

La sentenza che dà ragione alla giovane è arrivata in una città, Milano, in cui il tema è particolarmente caldo, anche per un provvedimento che da gennaio vieta l'ingresso in ospedali e uffici regionali a persone i cui connotati non siano riconoscibili a causa di caschi, passamontagna o veli che nascondano i connotati. Il provvedimento della Regione, annunciato a dicembre dall'assessore alla Sicurezza Simona Bordonali (Lega), è vigente dai primi giorni dell'anno, e alla Regione non risultano notizie sul ricorso che era stato annunciato in quei giorni dal Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche milanesi.

Nel frattempo il velo è entrato anche nella campagna elettorale, con la responsabile Cultura del Caim, Sumaya Abdel Qader, la cui candidatura, indipendente col Pd, ha suscitato grandi contrarietà nel centrodestra, non tanto per il velo quanto per l'orientamento dell'associazione di cui fa parte la dirigente islamica.

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