Silente, prossimo al mutismo, riservato quasi invisibile, impacciato tra telecamere e flash, più analogico che digitale il primo. Piacione, chiacchierone, primadonna, a perfetto agio in tv (di più: «Dopo la politica mi piacerebbe diventare conduttore»), incollato allo smartphone, onnipresente tra tweet, dichiarazioni e battute, il secondo. Difficile immaginare due tipi umani più diversi di Sergio Mattarella, capo dello Stato, e il premier Matteo Renzi. Non è detto però che l'affabulazione renziana, rispetto alla timidezza avara di parole di Mattarella, sia sempre un vantaggio per conquistare consensi. Se nella prima fase di Renzi, quella della rottamazione del vecchio Pd e della sostituzione al fulmicotone del troppo lento Letta (Matteo invece è rock), l'ipervisibilità da mattatore politico poteva bastare, da capo del governo con un anno e mezzo alle spalle, lo storytelling può avere l'effetto opposto e diventare indigesto. Viceversa, il profilo appartato di Mattarella - che sta mandando ai matti i quirininalisti, costretti a raccontarne non le parole ma «i silenzi» - si può trasformare in un prezioso atout , la sobrietà si traduce in serietà e credibilità, una volta storditi da troppa narrazione governativa.
E quel che sta succedendo, a guardare il sondaggi Ixè per Agorà . Il presidente taciturno, meno appare e più convince: è al 60% di fiducia tra gli italiani. E il loquace Renzi, invece? Scende al 30%, toccando nuovi minimi di una curva partita molto in alto. Appena insediato a Palazzo Chigi, come giovane innovatore chiamato a mettere il turbo alla politica impaludata, la popolarità di Renzi era al 61%, cresciuta fino al 71%, a livelli cioè stellari, con i fuochi di artificio delle Europee, quando Renzi comincia ad andare in coppia con un aggettivo (specie nei peggiori incubi dell'opposizione): imbattibile. Poi pian piano, ma nemmeno tanto, più parlava, annunciava, prometteva di rivoltare come un calzino l'Europa, il fisco, la burocrazia, l'Italia tutta, più - in mancanza di prove sicure ma solo di un turbinìo di parole - il premier piacione cominciava a piacere meno. Ad inizio 2015 il gradimento era al 50%, poi a giugno al 36%, ora più bassa ancora.
La fiducia in Mattarella, misurata dai sondaggi, invece non si è mai mossa di molto, mai scesa sotto il 60% rilevato subito dopo l'elezione al Quirinale. Semmai in sette mesi, pur senza mai occupare la scena e prendersi la ribalta con qualche intervento ad effetto, e anzi proprio per questo, il professore schivo è salito nei consensi. Lo aiuta, oltre alla discrezione connaturata alla personalità («Sergio il Tenace, il Calmo, l'Anti-eroe. Pacato, senza ansie da potere né sbandamenti faziosi» lo definì Pansa negli anni '80, quando Mattarella era tra i notabili Dc), il prestigio della carica, e la modalità con cui esercita il suo (grande) potere. Meno appariscente, più dietro le quinte, lontana dal pollaio dello scontro politico, non con la dialettica chiassosa dei leader ma con l'influenza (la moral suasion ) sulle loro decisioni. Meno si vede (e sente) un presidente e più conta. Quando invece il ruolo si fa più visibile, com'è accaduto con l'ultima parte del «regno» di Napolitano («Re Giorgio», appunto), il carisma ne risente. Così è successo per il predecessore di Mattarella. Altissimo, a vette irraggiungibili (90%) Giorgio Napolitano ad inizio e medio del mandato, quando poi ha preso le redini del governo, di fatto, guidando le dimissioni di un esecutivo per crearne altri a sua immagine e somiglianza, il monarca super partes si è fatto politico (più parole, più interventi, meno silenzi), scendendo i gradini della fiducia popolare (sotto il 40% a fine corsa). Un pericolo che forse non corre Sergio Mattarella, che silenzioso è per indole, non per dovere. Un consiglio che per l'esuberante premier sarebbe difficile seguire, anche se arrivasse dai più fidati spin doctor .
La percentuali di italiani che esprime fiducia verso il presidente Mattarella nel sondaggio Ixè-Agorà
di Paolo Bracalini
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