L'analisi del G

Il "tradimento" dello Zar e il trionfo del Sultano. Il risiko del Caucaso (ora diventato più turco)

La sconfitta armena in Nagorno-Karabakh ha dato il via a ripercussioni in tutta la regione: Putin ha lasciato al suo destino un tradizionale alleato Erdogan incassa la vittoria dei "fratelli" azeri

Il "tradimento" dello Zar e il trionfo del Sultano. Il risiko del Caucaso (ora diventato più turco)

l più alto in grado era il colonnello Ivan Kovgan: in origine sommergibilista, da un paio di mesi aveva l'incarico di vice-comandante della missione di pace russa schierata tra Azerbaijan e Armenia. Insieme ad almeno quattro dei suoi uomini è stato falciato dai mitra di un reparto azero che stava muovendo all'assalto della regione, etnicamente armena, del Nagorno-Karabakh. Subito dopo l'accaduto il presidente dell'Azerbaijan Ilham Aliyev ha chiamato il suo collega del Cremlino, ha chiesto scusa, si è detto disposto a risarcire le famiglie dei morti e promesso di destituire il comandante del reparto colpevole dell'incidente.

I russi non hanno battuto ciglio e tanto meno protestato. Così come non si sono mossi i loro peace-keepers quando le truppe azere hanno travolto le deboli difese armene nella regione contesa del Nagorno. I combattimenti sono durati un paio di giorni, poi la resa di fatto.

Nella capitale armena Yerevan la reazione degli abitanti è stata furibonda: la folla ha preso d'assalto il palazzo del Governo, accusato di non aver fatto abbastanza per proteggere il Nagorno-Karabakh. La polizia ha dovuto difendere anche l'ambasciata russa: al grido di «Assassini, assassini» i manifestanti hanno circondato minacciosi l'edificio. «Ora vogliamo liberarci dalla Russia. Per la prima volta dopo 400 anni non è più forte come un tempo, non possiamo perdere questa occasione», ha dichiarato un manifestante citato dal quotidiano Guardian.

Il «tradimento» di Mosca, così è stato percepito il comportamento dei russi, rischia di segnare una discontinuità profonda. Non solo per l'Armenia ma per l'intero Caucaso. La Regione tra il Mar Nero e il Caspio, grande più o meno come la Svezia, è un coacervo di popoli con 40 gruppi linguistici e un centinaio di comunità etniche: ci sono gli armeni, gli azeri e i georgiani, ma anche ceceni, daghestani, ingusci, cabardino-balcari e via continuando. Da 400 anni è l'oggetto del desiderio dell'impero zarista, che soprattutto nel corso dell'Ottocento ha compiuto una lenta opera di conquista. Ancora oggi, e nonostante la caduta dell'ex Unione Sovietica, come ha scritto qualche anno fa uno studioso su un giornale moscovita, l'area «è inalienabile parte della storia e del destino della Russia».

Da quando, però, Mosca si sta dissanguando in Ucraina, le cose sono cambiate. Yerevan, come la vicina Tbilisi, capitale della Georgia, sono di fatto città russe. Le migliaia di fuoriusciti arrivati dal Nord dopo lo scoppio della guerra possono condurre la loro vita senza dover parlare nessuna altra lingua se non la propria. Ma Mosca non è più nelle condizioni di proporsi nell'area come attore o mediatore credibile. E quando si tratta di fare scelte concrete è costretta a sottostare alle scelte dettate dalla necessità.

La nuova situazione si è riflessa nell'atteggiamento verso l'Azerbaijan: il Paese è un partner fondamentale nell'industria del gas e del petrolio, in più è l'unico punto di passaggio terrestre verso l'Iran, altro socio sempre più importante per l'economia russa. A questo si aggiunge la «naturale» affinità tra Vladimir Putin e la dinastia che regge le sorti del Paese: Ilham Aliyev, l'attuale capo di Stato, è figlio di Heidar Aliyev, che ha guidato l'Azerbaijan fin dalla fine dell'Unione Sovietica e che, come Putin, era un funzionario del Kgb.

Diversa è la situazione in Armenia e Georgia, democrazie tutt'altro che perfette, ma pur sempre democrazie. Per recuperare terreno nell'area Mosca avrebbe bisogno di fare ricorso al «soft power» di una grande potenza. Ma dopo la guerra questo è ormai ridotto a zero. E ieri, in un discorso televisivo il presidente armeno Nikol Pashinyan l'ha dichiarato esplicitamente: il sistema di alleanze in cui eravamo inseriti, appartiene ormai al passato. Al centro del sistema era il Csto, lasca alleanza militare con Mosca, a cui appartenevano sei Paesi ex sovietici. Pashinyan l'ha definita «inefficace» e «insufficiente». D'ora in poi, e salvo invasioni, l'Armenia è per Mosca (che infatti ha reagito furibonda), ormai persa.

Quanto alla Georgia Mosca può contare sopratutto sul partito di governo «Sogno georgiano», fondato e diretto dietro le quinte da un miliardario che ha fatto i soldi in Russia, Bidzina Ivanishvili. Per difendere i suoi business non manca mai di orientare il suo movimento verso decisioni favorevoli a Mosca. Ma di fatto è costretto, almeno all'apparenza, a prestare attenzione agli orientamenti dell'opinione pubblica, pesantemente anti-russa. Secondo i sondaggi l'80% della popolazione vorrebbe l'ingresso nella Nato o nella Ue. Ed è bastato che il governo decidesse di adottare una legislazione di tipo putiniano sulle Ong (chi riceveva finanziamenti dall'estero veniva etichettato come «agente straniero») per provocare una rivolta di piazza con conseguente ritiro del provvedimento. Perfino la decisione di ripristinare voli diretti con la Russia ha provocato scontri e incidenti.

Così Georgia e Armenia, superando la frontiera dello «scontro di civiltà» tra cristiani ortodossi e musulmani, hanno stretto i rapporti con l'altro grande protagonista degli equilibri geopolitici nella Regione: la Turchia di Recep Tayypp Erdogan. Anche in questo caso la presenza del Paese nell'area è legata a un passato secolare: gran parte del guerre per il Caucaso sono state guerre russo-turche. Ma questa volta, dopo secoli di arretramenti, è la Turchia ad avere il coltello dalla parte del manico.

Ad avvicinarla all'emergente Azerbaijan è il legame non solo religioso ma etnico-linguistico: non c'è azero che non capisca la lingua di Ankara, molto simile e resa ancor più popolare da sceneggiati e sitcom turchi trasmessi in lingua originale a ogni ora del giorno. Anzi: secondo le correnti panturaniche, le più nazionaliste della politica locale, Turchia e gli altri Paesi turcofoni sono di fatto un'unica nazione che deve puntare a un riconoscimento politico.

Nella recente campagna elettorale Erdogan ha reso popolare uno slogan che sintetizza la sua politica internazionale. Il prossimo, ha detto, sarà il «secolo turco». A differenza di quello che sosteneva il padre della patria Mustafà Kemal Ataturk, la sfida oggi non è più quella di raggiungere uno stadio economico-culturale più avanzato sul modello occidentale. Al contrario: l'Occidente appare declinante e in crisi. Ankara deve puntare a essere uno dei centri di un equilibrio multipolare da costruire. È il primo passo di una Turchia «post-occidentale», ha scritto la rivista «Foreign Affairs».

E il Caucaso sarà il suo trampolino di lancio.

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