Il Palazzo in ansia pensa già al dopo. Tra facce da poker e accordi segreti dietro le quinte

Con il trasloco del premier il Quirinale diventerebbe come l'Eliseo. I deputati ripetono tutti lo stesso ritornello: deve essere condiviso

Il Palazzo in ansia pensa già al dopo. Tra facce da poker e accordi segreti dietro le quinte

Erano bei tempi quelli in cui i direttori di giornale chiamavano il bravo cronista e gli dicevano vai a vedere le elezioni presidenziali e fai un gran bel pezzo di colore. Erano bei tempi perché, stiamo parlando di un mondo finito circa 20 anni fa, il colore della politica esisteva veramente appunto c'erano i partiti, i leader, le correnti, il pallottoliere su cui si contava il peso delle diverse forze dunque dei voti e si potevano fare previsioni con la macchinetta calcolatrice. Oggi non più. Oggi uscendo dalla metafora il colore nel senso del curioso divertente e sparito ed esiste invece anzi serpeggia, la sensazione che la Repubblica intera stia entrando in una fase nuova, molto impegnativa e di esito incerto. Il vero e unico tema dei pettegolezzi dei rilanci delle notizie nella giornata di ieri è stato uno solo: che succede se portiamo Draghi al Quirinale? E che succede se non lo facciamo? A nessuno è sfuggito che Matteo Salvini stia svolgendo con solitario multitasking entusiasmo il ruolo di tessitore, ambasciatore e King maker perchè a qualche importante risultato tanto brillante attivismo deve pur essere arrivato.

Ieri tutti abusavano dell'orrido termine «condiviso». Bisogna condividere tutto e portare a casa un risultato che essendo da tutti condiviso non può che essere un compromesso a livello più basso, quello cui nessuno può dire di no ma senza sorridere. E in questo si vede il gap della nostra democrazia: la democrazia è prima di tutto divisione e non unità, competizione e non girotondo, la democrazia cerca il consenso di una maggioranza e poi funziona con gli strumenti che si è data. Da noi no. Da decenni si spaccia la balla secondo cui è buona democrazia darsi tutti la manina e ieri tutti sembravano darsi davvero la manina. Il fatto è che se Mario Draghi sarà eletto presidente della Repubblica, piaccia o non piaccia dovrà diventare un presidente alla francese senza neanche bisogno di modificare la costituzione.

Dovrebbe lasciare Palazzo Chigi con le cartelle ancora aperte, correre al Quirinale, dare l'incarico a una persona di sua estrema fiducia, fare con lui la lista dei ministri e condurre per mano un tale governo fino al raggiungimento dello scopo per cui Mario Draghi è stato chiamato ad assicurare all'Europa che l'Italia avrebbe fatto tutti i compiti per meritare la gigantesca somma stanziata per farci uscire dalla decadenza. Per questo è stato chiamato Draghi cui è stato affidato un compito e un posto di lavoro.

E se adesso Draghi salisse al Quirinale dovrebbe eseguire lo stesso compito esercitando delle funzioni perfettamente legittime ma da noi mai usate: il vero presidente starebbe al Quirinale come quello francese sta all'Eliseo mentre un primo ministro di scarsa notorietà starebbe a Palazzo Chigi come quello francese sta al Matignon. Tutto il mondo della politica sa perfettamente che questa è la situazione ed esplora la possibilità di compiere l'operazione Draghi al Quirinale ricavandone garanzie e vantaggi per tutti. Non si vede per quale altro motivo Matteo Salvini avrebbe dovuto incontrare ieri Mario Draghi, certo non per discutere di qualche provvedimento di legge.

Avranno parlato di Quirinale e di futuro governo. E Salvini lo avrà fatto anche con Enrico Letta mentre sembra che l'incontro con il povero Conte sia finito malissimo. Tutti i deputati di quasi tutti i partiti acciuffati per strada da volenterosi giornalisti armati di microfono attaccavano la canzone del condiviso e non smettevano di ripeterne il solito ritornello: stiamo cercando un metodo condiviso per trovare un candidato condiviso che risponda alle caratteristiche condivise che possano trovare riscontro nel favore condiviso dal popolo di un paese condiviso. Questo è il colore della politica nel 2022. Ma la partita è gigantesca e da più parti è emersa una ipotesi molto fantasiosa se l'accordo con Draghi o su Draghi non si fa e potrebbe non farsi perché occorrono molte garanzie per troppi, allora il Parlamento tornerebbe a fare ciò che è sempre fatto in questa circostanza quando si è lavorato su un nome che poi è decaduto. E cioè cade in una depressione distratta per cui si susseguono votazioni inutili, mentre dietro le quinte riprendono le trattative. Hanno detto ieri diversi parlamentari, ricordiamo ad esempio Rotondi, che tutti i giochi tornerebbero in tavola compresa la candidatura finora respinta di Silvio Berlusconi, perché in quella fase potrebbe ottenere un effetto moltiplicatore.

Ma questi sono scenari di un futuro con troppe varianti per essere calcolate. Quel che è certo è che il centrodestra non appare una forza coesa, diciamo pure condivisa, dal momento che Giorgia Meloni dichiarando di voler votare immediatamente afferma di puntare sulla crisi di governo laddove invece Berlusconi e Salvini vogliono che il lavoro di Draghi vada avanti.

Il resto non è colore ma solo pettegolezzo e per di più non riscontrabile perché tutti giocano a fare la faccia da poker come se potessero nascondere grande segreti che probabilmente non esistono.

Tuttavia, è un fatto che la giornata che comincia oggi, come nel film Via col vento, è un altro giorno e che ieri sono stati raggiunti dei risultati che oggi dovrebbero portare dei frutti e in pratica si vedrà se l'intera manovra centrata sul Draghi e il dopo Draghi ha dei fondamenti oppure no. Nessuno sa o perlomeno nessuno dice di saperlo. E chi lo sa, fa quel genere di faccia molto furba che a Roma chiamano la faccia del gatto col sorcio in bocca.

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