Tre riforme al palo: quegli antichi tabù che rottamano Renzi

Giustizia, pensioni e articolo 18. Il premier aveva creato grandi aspettative ma ora rischia di farci tornare alla Prima repubblica

Tre riforme al palo: quegli antichi tabù che rottamano Renzi

Ma l'Italia non doveva «cambiare verso»? Con un rottamatore a Palazzo Cigi le attese erano altissime, poi le speranze di una stagione di riforme radicali sono evaporate, con il rischio di sprecare la disponibilità degli italiani a fare sacrifici per sostenerle. Merce preziosa e difficile da conservare.

I sondaggi sulla popolarità del premier, gli ultimi di ieri, sono ancora positivi, ma «Renzi rischia di fare la fine di Monti e Letta», ha sintetizzato il segretario della Uil Luigi Angeletti, attento osservatore delle cose politiche, per una volta troppo ottimista. Perché quella che emerge dalle cronache politiche di fine agosto è un'aria ancora più antica di quella che buttò giù i precedenti governi tecnici.

Parole d'ordine e tabù da Prima Repubblica - nemmeno da seconda - che Matteo Renzi non riesce a rottamare.

Sulle pensioni, ad esempio, non si è tanto lontani dal '92. O meglio, si ha l'impressione di essere ancora al cantiere aperto 22 anni fa (Renzi aveva 17 anni); dentro il gorgo della riforma previdenziale permanente e i relativi dibattiti.

La modalità è la stessa sperimentata da Andreotti-Amato fino a Fornero, passando per Dini. Si annunciano misure di equità, spuntano fuori riforme che di equo non hanno molto, che all'inizio vengono smentite e poi confermate. In questo percorso, però, si trasformano da riforme a manovre per fare cassa. Ieri il sottosegretario alla Presidenza Graziano Del Rio ha escluso un contributo di solidarietà sugli assegni più alti per finanziare l'estensione (o la conferma) del bonus da 80 euro, ma l'idea del ministro del Lavoro Giuliano Poletti resta in campo. Se non altro perché il governo è a caccia di coperture.

Sul lavoro, poi, tira un'aria da 1969-1970, che piace molto a quella sinistra che Renzi sembrava avere distrutto. Il dibattito politico sul lavoro, si è concentrato, malgrado gli sforzi del leader democratico, su quell'articolo 18 che ha definito «un totem» del quale è meglio non parlare. Una rimozione che ha sicuramente valide ragioni politiche (non indispettire l'ala sinistra della sua maggioranza e partito), ma che comporterà l'impossibilità di fare una riforma che dia più flessibilità al mercato del lavoro italiano. Proposte come quelle di Ichino e Tiraboschi, che sembravano ritagliate su misura per il rottamatore, restano nella lista sempre più lunga delle cose da fare se e quando ci saranno le condizioni. I sindacati non accenderanno un altro autunno caldo (1969), ma l'effetto sarà lo stesso.

Cade polvere anche sulle altre riforme, quelle non economiche che il premier coerentemente insiste nel volere fare con l'opposizione di centrodestra, salvo poi annacquare e smentire le prime bozze. I limiti nell'uso delle intercettazioni, ad esempio, sono tramontati sulle resistenze delle procure. La responsabilità civile dei magistrati ha risvegliato la resistenza dell'Associazione nazionale magistrati. «Se vincono i manettari, Forza Italia non ci sta», ha scritto ieri il Mattinale.

Il sospetto è che, nonostante i toni forti di Renzi contro il M5s che non vuole dialogare con il governo, Grillo riesca a condizionare l'esecutivo frenando gli intenti riformisti. Anche in questo caso, un tabù antico non rottamato: l'inciucio con Berlusconi.

Lo spettro del quale Renzi non riesce a liberarsi è la Bicamerale per le riforme di D'Alema. Era il 1997, il premier un ragazzo. Politicamente non era nemmeno nato, ma già sognava di rottamare la sinistra. E probabilmente non capiva quei leader politici, frenati da tabù antichi.

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