La "trinità" berlusconiana e le panchine dell'immortalità

Tre mister che hanno incarnato il "Cavaliere allenatore". L'innovativo Sacchi, il manager Capello e l'umano Ancelotti

La "trinità" berlusconiana e le panchine dell'immortalità
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Uno e trino, se non divino perlomeno immortale. Immortale (resterà) il Berlusconi di quel Milan che nell'anima unica, ma modellata dalle tre facce degli allenatori che più lo hanno rappresentato, ha conquistato cinque tra Coppa Campioni e Champions league: ovvero la grande bellezza di una storia. Facile ricordare nomi e cognomi: Arrigo Sacchi, Fabio Capello, Carlo Ancelotti. Tutti con una sorta di astuzia contadina che non era modellabile, ma con l'intelligenza del sapersi adeguare. Anche se quel presidente, che pareva venire da Marte, si è divertito più con i giocatori che con i tecnici: una scelta stuzzicante. Servivano danari pesanti, è vero, ma bisogna saper scegliere. Lo dimostra il calcio di oggi.

Con gli allenatori bisognava trovare affinità di intenti e di metodo, del pensare calcio e del pensare non solo calcio: psicologia, coraggio, determinazione, intuizione senza limiti, qualche pizzico di leggerezza. Berlusconi aveva il talento e quello non si modella: appartiene per nascita. Il talento è stato il gran segreto di un presidente che voleva essere (anche) allenatore. Poi c'è chi lo sa usare bene e chi lo getta via. E con quel dono di natura ha risposto alla prima domanda che si fece Sacchi: «Siete pazzi o siete geni?». L'Arrigo interpretò l'uno e l'altro che, poi, era quel che gli chiedeva il padrone: andare oltre il sogno. E solo il passare del tempo creò la risposta al Liedholm che, con imperturbabile ironia, ricordava: «Già, Berlusconi ha allenato l'Edilnord».

Berlusconi vide in Sacchi l'uomo che sapeva osare e capire anche l'allenatore dell'Edilnord, che amava le due punte e i 4 difensori. Di Sacchi si può dire tutto ed il contrario, ma soprattutto che sia stato interprete del modello berlusconiano per vincere: tattica e spregiudicatezza, metodo e dedizione, occhi per sognare e testa per giocare. Diciamo il Berlusconi del Milan olandese, la squadra più amata. Poi c'era il manager Berlusconi e non a caso Fabio Capello, friulano tutto cervello e passo calibrato, venne mandato a far esperienza. Il presidente raccontò di vederne il nuovo Rocco. In realtà un Rocco più moderno, con una visione più rivoluzionaria. Il Paron che gestiva Rivera era un maestro di psicologia. Questo, che fece scalpitare nei verdi prati di Milanello, doveva interpretare la novità calcistica, a cavallo tra psicologia e senso del business, calcio da grande allenatore e calcio vincente e trainante. Non era facile dopo Sacchi, ma Capello divenne il miglior manager di stampo berlusconiano ovviamente su un campo di calcio, dentro uno stadio, nelle sfide decisive che lo portarono a conquistare titoli (al netto di qualche sconfitta) e a controfirmare il cosiddetto Milan degli Invincibili. Tutto oro per il marketing.

Ma noi sappiamo che Berlusconi, oltre al giuoco, amava il sorriso e la battuta, dispensava barzellette e spirito leggero quando serviva. Il calcio lo dovrebbe imporre, ma non sempre riesce ad esaltarlo. Nel pallone moderno è forse questo il più grande Elogio della follia: farti sorridere, stemperare con una battuta. Ascoltate Carlo, detto Carletto, Ancelotti e ritroverete quel guizzo di vita diversa, quel concentrato di berlusconismo che cerca simpatia, chiama la battuta, allevia la sofferenza di un mestiere: quello del tecnico. Figuratevi quello del presidente-allenatore.

Due Champions, uno scudetto, diverse coppe ornano il pedigrèe di Ancelotti che lievitava anche nel tono brusco, ma poi rientrava nell'abito di un battutista, di un mister Simpatia. Ecco, dunque, la trinità berlusconiana vista in panchina. Poi c'era il presidente che sapeva dire: «Ho speso bene i miei soldi». E con quei soldi ben spesi ha conquistato l'Immortalità.

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