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Il trionfo che cambia una storia: così la Meloni si è presa la destra

In Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju (Gondolin) è contenuto il racconto delle origini politiche del leader di Fdi. Tutto nasce con il congresso di Viterbo nel 2004, quando Giorgia Meloni trionfa tra i delegati contro il candidato degli alemanniani

Il trionfo che cambia una storia: così la Meloni si è presa la destra

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto da "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju" (Gondolin Edizioni, 192 pagine, 17 euro) scritto da Francesco Boezi

La sera prima del voto, mentre noi eravamo intenti a festeggiare alla comunitaria maniera (immaginatevi pure qualcosa di più di una birra a testa, ndr), i nostri avversari lavoravano ai fianchi dei delegati indecisi, mentre noi eravamo intenti a gridare ‘Carlo! Carlo! Carlo!’”. Pare il retroscena – sempre smentito – dell’intervallo della finale tra il Milan e il Liverpool di Istanbul del 2005. A Viterbo, Alleanza Nazionale era rappresentata al tavolo da Donato Lamorte, finiano doc, costretto in quell’occasione a sorbirsi qualche critica degli antifiniani. Le regole congressuali avevano imposto la presenza di un rappresentante di partito. Oggi c’è chi afferma che l’atteg- giamento dei sociali nei confronti del viaggio di Fini in Israele si rivelò determinante per alimentare le convinzioni di chi, partendo da posizioni più moderate, non era convinto del proprio voto a Fidanza.

Pare che a Viterbo un delegato romano abbia basato il suo intervento sul fatto che quella svolta filoisraeliana non potesse essere storicamente digerita. Magari era stato questo il motivo per cui, quei quattro delegati di Bari, avevano scelto di votare per la Meloni. Fatto sta che Giorgia Meloni, in barba ai pronostici, aveva vinto. Per pochi voti: probabilmente otto, ma c’è pure chi se ne ricorda solo quattro. Una fonte ci ha detto dodici. Fidanza e la destra sociale erano stati sconfitti di nuovo. Alemanno era il ministro dell’Agricoltura, ma non avrebbe potuto asserire di aver allargato la sua sfera d’influenza partitica sul giovanile. Giorgia Meloni non aveva innescato per volontà una competizione lacerante, minando alla base un clima comunitario già compromesso per via dei correntisimi, ma aveva semplicemente agito sul terreno che le si era presentato dinanzi, come spiegherà in Noi Crediamo : “Intendiamoci, ci ho lavorato meticolosamente, perché sono una che non ama affatto perdere, né mi piace procedere per approssimazione, eppure non ho brigato per quella candidatura...”. “Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza; godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura e andate chissà dove per non pagarle tasse col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe. Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna. Gli orpelli? L’arrivismo? All’amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco, io non perdono, non perdono e tocco!”. Alla Meloni dovrebbe piacere tuttora questa canzone. Sì, è di Francesco Guccini, ma la musica per i meloniani è sempre stata principalmente musica. E un testo, anche se incasellabile nella cultura di sinistra, può comunque essere ricco di significati.

La donna – la stessa che sarebbe diventata il fulcro attorno cui avrebbe ruotato la storia della destra italiana nei decenni successivi – aveva scelto quei versi per sintetizzare il suo programma elettorale. Cyrano – il titolo della canzone – sarebbe stato pure il nome selezionato per il campo estivo di Azione Studentesca, il primo movimento giovanile guidato dalla ragazza della Garbatella (una definizione che piace tanto ai media main-stream), ma originaria della Camilluccia. La fiaccola del movimento studentesco, As, sarebbe passata – dopo la vittoria della Meloni a Viterbo – nelle mani di Michele Pigliucci, un altro giovane della comunità dei “gabbiani”. La Meloni intanto aveva cominciato a volare, perché aveva osato farlo. Anche Luis Sepùlveda, che abbiamo perso in piena pandemia per via del Sars-Cov2, riassumeva con quella frase – “vola solo chi osa farlo” – la tensione all’inaspettato, che potrebbe essere considerata tipica dei meloniani. Viterbo, per alcuni, è ancora in corso.

O meglio: il congresso di Viterbo è finito, ma quelli erano talmente tanto “bei tempi” che anche essere stati sconfitti poteva nascondere un sapore dolce Onorevole Carlo Fidanza, com’è stato perdere contro la Meloni? “Viterbo ha segnato un’intera generazione. Io ne ho un ricordo in chiaroscuro. Tuttora rosico quando Giorgia o altri mi sfottono. Perdere non è mai bello e a me per fortuna è capitato poche volte pur essendo stato spesso in minoranza”. Quelli che escono con le ossa rotte dalle competizioni, a destra, sono spesso stati elogiati o più direttamente idolatrati: “Non mi ha mai convinto una certa retorica della sconfitta che c’è sempre stata a destra, figlia della guerra civile e della logica del ghetto degli anni di piombo. Poi la differenza tra noi e gli altri è che la destra sa vincere, rende onore al nemico sconfitto e persegue la pacificazione. La sinistra normalmente solo odio e vendetta. Ma razionalmente Viterbo è stato soprattutto il momento che ci ha fatto diventare grandi, che ha forgiato una classe dirigente che oggi è la spina dorsale di Fratelli d’Italia”. La sconfitta di Viterbo, allora, come un’opportunità per tutti? Anche per lei? “In quel momento saremmo potuti sembrare i ragazzi che combattevano una "guerra per procura" tra le correnti di Alleanza Nazionale che non avevano il coraggio di sfidarsi apertamente nel partito dei grandi. Invece, in realtà, eravamo la classe dirigente della Destra italiana del futuro. Ne avevamo le qualità e la determinazione, come abbiamo dimostrato aiutando Giorgia a costruire FdI”.

Lei, onorevole Fidanza, si sente parte della “Generazione Atreju”? “Giornalisticamente, si è affermato il brand ‘Generazione Atreju’, chi ha fatto come me il percorso nella destra sociale giovanile si è temprato molto di più nei nostri campi eredi dei campi Hobbit e sulle pagine di Area (il mensile diretto a lungo da Marcello De Angelis). Forse noi siamo stati la ‘Generazione Campobase’ o la ‘generazione Area’. Tutti insieme siamo la ‘Generazione Viterbo’ perché quello è stato il momento della nostra vera maturazione, a prescindere da chi ha vinto e chi ha perso. E forse nell’abbraccio finale tra me e Giorgia non c’era soltanto il rispetto reciproco ma anche la consapevolezza del momento che stavamo vivendo. E con quell’abbraccio avevamo dato il segnale che bisognava deporre le armi interne e tornare a combattere là fuori”.

Già, “là fuori”, dove ad attendere la “Generazione Atreju” c’era la cronistoria di un cammino per nulla scontato: una traversata nel deserto che inizia a essere decantata al pari di un’elegia di un miracolo politico o di qualcosa di molto simile.

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