
Donald Trump resiste al pressing degli altri partner del G7 e non sottoscrive la bozza di dichiarazione congiunta che chiede una «de-escalation» tra Israele e Iran e una ripresa dei negoziati. All'avvio dei lavori del vertice di Kananaskis, il presidente Usa si tiene le mani libere e al solito non usa mezze parole nell'esporre la sua posizione: «Gli iraniani vogliono parlare, ma avrebbero dovuto farlo prima, hanno avuto 60 giorni», dice nel primo incontro con i cronisti al seguito. Il riferimento è alla finestra negoziale che era stata concessa a Teheran nei colloqui sul nucleare. E ancora, il conflitto «è doloroso per entrambe le parti, ma l'Iran non sta vincendo questa guerra e dovrebbero parlare subito prima che sia troppo tardi». Altro non è, in termini pratici, che il concetto di «peace through strength», pace attraverso la forza, col quale l'America di Trump sta rimodellando il proprio ruolo di superpotenza mondiale. In questo caso, ad esercitare la «forza» è Israele, al quale Trump ha assicurato il sostegno Usa, pur senza un coinvolgimento diretto nella guerra. Anche se, il presidente replica «non voglio dirlo», a chi gli chiede a quali condizioni Washington potrebbe intervenire nel conflitto. E risponde invece, «noi aiutiamo sempre Israele», alla domanda su quale contributo di intelligence gli Usa abbiano fornito all'Idf.
Trump sembra quindi giocare la sua scommessa, puntando su una vittoria israeliana e un possibile cambio di regime a Teheran, i cui dividendi ricadrebbero anche sugli Stati Uniti, con una potenziale pacificazione della Regione. Sarebbe un capolavoro di calcolo politico, dopo che inizialmente il tycoon era apparso se non spiazzato, quantomeno non entusiasta dell'attacco israeliano all'Iran, che aveva definitivamente archiviato le sue ambizioni di giungere ad una soluzione diplomatica.
Ancora domenica, Trump giocava sull'ambiguità, esortando Israele e Iran a «trovare un accordo» e aprendo all'ipotesi di un «Putin mediatore». Idea esplicitamente respinta da Emmanuel Macron e accolta con freddezza (eufemismo) dagli altri leader del G7. Il tycoon, che nelle prossime ore incontrerà Volodymyr Zelensky, ha poi riaperto la finestra al leader russo, definendo «un errore» l'esclusione di Mosca dall'allora G8, voluta da Barack Obama. Anche se, ha ammesso, «è troppo tardi, sono accadute troppe cose», per riavere la Russia al tavolo dei Grandi. Dal punto di vista americano, il semaforo giallo concesso a Netanyahu sembra che stia portando i suoi frutti, se dovessero essere confermate le indiscrezioni, rilanciate dal Wall Street Journal, che riferiscono di una leadership iraniana, quel che ne rimane almeno, desiderosa di riprendere la via del dialogo. «Gli iraniani vogliono parlare, ma avrebbero dovuto farlo prima» è appunto la chiave della posizione Usa di queste ore, incurante delle richieste iraniane e altrettanto incurante di quelle degli alleati del G7, che alla situazione in atto preferiscono invece rispondere con un appello alla moderazione che, in questa fase, nell'ottica trumpiana, non farebbe altro che riportare il Medioriente a quello stato di forever war, di guerra perenne, del quale il tycoon vuole liberarsi, per disimpegnare l'America dai troppi teatri di crisi nei quali è presente. Di nuovo, è l'«America First» promessa in campagna elettorale.
Un messaggio che è stato portato anche al vertice di Kananaskis, con la scelta, anche estetica, di scendere le scalette dell'Air Force One e mettere piede sul suolo canadese indossando il classico cappellino «Maga». Del resto, come ha ammesso il canadese Carney nel suo faccia a faccia col tycoon, «il G7 non è nulla senza la leadership americana».