
Un'occasione d'oro servita su un piatto d'argento a Xi Jinping, il leader neo maoista che si è votato a trasferire nelle mani della Cina (e quindi in quelle del suo onnipotente partito comunista) l'egemonia globale ancor oggi detenuta dagli Stati Uniti. Occasione e piatto sono gentile omaggio di Donald Trump, il convitato di pietra del vertice euroasiatico in corso a Tianjin. Il presidente americano è fisicamente assente, e ben si comprende, essendo questo evento riservato alle potenze che ambiscono a sovvertire l'attuale ordine mondiale: ma nel summit cinese si parla soprattutto di lui.
Di lui e dei grossolani errori geostrategici che va incolonnando, a tutto vantaggio dei suoi rivali autocratici sempre più ringalluzziti. Dei dazi assurdamente imposti a Paesi storici alleati dell'America dall'Europa fino alla Corea del Sud e al Giappone e a quelli che, come l'India in primo luogo, dovrebbero essere trattati con i guanti da Washington, vista la loro preziosa funzione di contrappeso verso la Cina e potenzialmente la Russia. Dell'instabilità che va seminando nel mondo, segando il ramo dell'albero secolare su cui poggia l'egemonia globale del suo grande Paese che spergiura di voler fare sempre più grande: un'instabilità provocata da quei dazi che permettono ai mercantilisti rossi di Pechino di recitare la parte dei difensori del libero mercato e Ronald Reagan si rivolta nella tomba ma anche dai colpi illogicamente assestati da Trump alle stesse alleanze internazionali che permettono all'America di essere (ancora) grande per davvero.
Quella instabilità spinge potenze in crescita come l'India, bistrattate da un presidente americano che sembra privo di una bussola che non sia quella del bullismo di corta vista e di un interesse troppo spesso anche familiare, nelle interessate braccia di Pechino. E offre a Xi l'occasione d'oro di proporsi al disorientato "sud globale" un tempo coincidente a grandi linee con i cosiddetti "non allineati" come punto di riferimento per un nuovo ordine internazionale definito "più equo".
Peccato che di quest'ordine ci sia ben poco da fidarsi. Nella sua cabina di comando, infatti, siedono accanto al finto benevolo Xi Jinping il macellaio dell'Ucraina Vladimir Putin e i peggiori leader degli Stati canaglia mondiali: dall'iraniano Khamenei al venezuelano Maduro al bielorusso Lukashenko, fino all'abominevole dittatore nordcoreano Kim che mercoledì a Pechino, insieme con Xi e Putin, assisterà gongolante allo sfoggio della potenza militare cinese.
Davanti al palese consolidarsi di questo fronte antioccidentale a guida cinese, malamente mascherato da nuovo ordine "più rappresentativo e democratico" come ha avuto l'incredibile faccia tosta di sostenere Vladimir Putin -, Trump non ha niente da dire. Ha autoisolato se stesso e gli Stati Uniti sulla scena mondiale, ma non se ne rende conto. Ha regalato a Putin tappeti rossi e riabilitazione internazionale nel disgraziato vertice in Alaska, e quello lo ringrazia incrementando i massacri di civili in Ucraina e minacciando apertamente i suoi vicini europei. Intanto lui ciancia di suoi dubbi su un bilaterale Putin-Zelensky, fingendo di credere a un improbabilissimo trilaterale con anche lui presente.
Tra l'altro.
Scade oggi il presunto ennesimo ultimatum trumpiano a Putin se non si presenterà al fantomatico tavolo per la pace in Ucraina. Al Cremlino, a porte chiuse perché non si senta, sghignazzano e vanno avanti tranquilli con le bombe.