Donald Trump cede sull'Irak ma non molla sulla sua idea di fondo che gli ha già provocato tante critiche: il «travel ban» per i cittadini dei Paesi musulmani considerati a rischio terrorismo deve essere confermato.
Il presidente degli Stati Uniti ha dunque - coerentemente con le promesse elettorali fatte al tempo della corsa alla Casa Bianca - firmato ieri l'annunciata versione aggiornata del suo ordine esecutivo sull'immigrazione, che entrerà in vigore il prossimo 16 marzo. L'aspetto interessante del nuovo bando - che per i democratici è «pericoloso e anti americano» - è appunto l'esclusione dalla lista dell'Irak, probabile conseguenza delle pressioni del Pentagono, che dopo i contatti avuti dal vicepresidente Mike Pence e dal segretario di Stato Rex Tillerson con le autorità irachene ha chiesto alla Casa Bianca di tenere conto che Bagdad è un'alleata degli Stati Uniti nella battaglia contro l'Isis. Una battaglia che Trump ripete con toni categorici di voler combattere fino alla vittoria definitiva. La consigliera del presidente Kellyanne Conway ha però preferito sminuire la valenza politica di questa scelta, sostenendo che la novità si spiega invece con «i controlli rafforzati che questo Paese ha messo in atto nelle ultime settimane».
Il bando è stato reimpostato e in parte ammorbidito rispetto al testo presentato lo scorso 27 gennaio e che era stato bloccato dai magistrati: è stato eliminato anche il riferimento ai siriani di religione cristiana, che Trump intendeva esentare dal bando destinato ai loro compatrioti di altre fedi. Continuerà però a riguardare gli altri sei Paesi precedentemente elencati, e cioè Iran, Siria, Libia, Sudan, Yemen e Somalia. Non avrà tuttavia effetto sui titolari di green card - il documento che consente la residenza negli Usa ai cittadini stranieri - né su chi dispone di un visto valido.
E mentre l'atteso nuovo capitolo della storia infinita del cosiddetto Muslim Ban occupa ancora le prime pagine dei giornali, anche la velenosa vicenda che vede contrapposti due presidenti degli Stati Uniti non accenna a ricomporsi. È infatti ormai scontro aperto tra Donald Trump e l'Fbi, uno scontro che rischia di portare gli Stati Uniti a un inedito choc istituzionale. La polizia federale ha chiesto al dipartimento della Giustizia di smentire le pesanti affermazioni fatte domenica dal presidente, secondo cui il suo predecessore Barack Obama avrebbe dato ordine di spiare le sue linee telefoniche private durante la campagna elettorale per le presidenziali.
Il direttore generale dell'Fbi James Comey ha definito senza mezzi termini le affermazioni di Trump «false», e ha chiesto che siano «corrette». Anche il direttore dell'agenzia d'intelligence nazionale Dni, James Clapper, ha smentito il presidente negando che Obama gli avesse affidato alcun incarico che lo riguardasse. Dal dipartimento di Giustizia - guidato da quel Jeff Sessions già in difficoltà per i suoi contestati contatti con l'ambasciatore russo Serghei Kislyak - risponde per ora un imbarazzato silenzio. La replica è lasciata a una portavoce della Casa Bianca, che ribadisce la richiesta già fatta al Congresso di fare «il proprio dovere» e procedere a indagini da affidare alla commissione intelligence.
Non conosce fine neanche la bizzarra vicenda dei bagni pubblici per i transgender, un tema che contro ogni logica apparente ha visto intervenire personalmente due presidenti degli Stati Uniti, prima Obama per garantire il diritto di chi
appartiene al «terzo sesso» di usare il bagno che preferisce, poi Trump per revocarglielo. La Corte Suprema ha deciso ieri di non pronunciarsi sul caso, rinviando alla Corte d'appello federale un ricorso sul «fondamentale» tema.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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