Nell'empireo della Corte Costituzionale ce l'hanno catapultato i deputati del Movimento 5 Stelle, indicandolo quando nel 2015 si dovette provvedere alla nomina di tre membri della Consulta: e nell'ambito della tradizionale spartizione delle auguste poltrone, per il seggio di loro spettanza i grillini fecero compatti il suo nome. Ma Franco Modugno, il giudice che ha scritto la sentenza sull'assistenza al suicidio, difficilmente può essere considerato un miracolato della politica: alle sua spalle questo giurista non più giovane - ha da poco compiuto gli ottantun anni - ha un curriculum accademico di tutto rispetto, che lo colloca nella top ten dei costituzionalisti italiani. Politicamente poco etichettabile, anche se il suo maestro fu un socialista doc come Massimo Severo Giannini, Modugno è stato l'uomo giusto per mediare tra le diverse anime presenti tra i quattordici membri della Consulta: senza contare il presidente, Giorgio Lattanzi, ulivista di lungo corso (è stato nello staff di governo di Romano Prodi e Massimo D'Alema), che certamente in questo delicato frangente ha fatto sentire la sua voce.
Anime diverse, come s'è detto, dentro la Consulta: ma con un oggettivo sbilanciamento nella provenienza politica, visto che nella spartizione dei consiglieri l'accordo tra Pd e 5 Stelle - l'accordo che oggi sorregge il governo -è arrivato molto tempo prima dell'appoggio al Conte 2. Di fatto, già da cinque anni i grillini e la sinistra hanno fatto piazza pulita dei seggi che man mano si liberavano in uno degli organismi cruciali previsti dalla Costituzione. Nessun giudice espressione del centrodestra: tutte le ultime infornate hanno portato alla Consulta giuristi (tutti di valore, eh) cari all'alleanza rossoverde. Scelte a volte più «tecniche», come quelle di Modugno; a volte apertamente di parte, come le nomine di Giuliano Amato, o l'ex comunista Augusto Barbera.
In questa sorta di colonizzazione (con l'eccezione dell'ultimo arrivato, il «trasversale» Luca Antonini), a incarnare una lettura moderata della Costituzione è rimasta, quasi da sola, una donna: Marta Cartabia, varesina, 56 anni, docente universitaria, nominata nel settembre 2011 da Giorgio Napolitano (al capo dello Stato spetta la scelta di cinque membri) ma assai lontana dal mondo dei cosidetti «giuristi democratici», e anche per questo sconfitta per due volte nella corsa alla presidenza della Corte. La Cartabia è di matrice cattolica, più esattamente ciellina, e non ha mai fatto nulla per abiurare (è stata anche ospite all'ultimo festival di Rimini). Così, anche se ha sempre evitato prese di posizione pubbliche, è facile ipotizzare che nel segreto della camera di consiglio della Consulta la sua voce sia stata tra quelle che hanno messo in guardia contro una liberalizzazione totale dell'aiuto al suicidio. Di questa sua battaglia c'erano le tracce già nella sentenza di un anno fa, che rinviava l'udienza auspicando che il Parlamento producesse una nuova legge: una ordinanza forte nel modo ma cauta nella sostanza, attenta a non preannunciare una decisione in un senso o nell'altro.
Certo, a complicare tutto c'è che le divisioni sul tema del «fine vita» non ricalcano fedelmente la geografia dei partiti, e che in entrambi gli schieramenti ci sono voci discordanti. Ma è un fatto che a spingere verso una liberalizzazione sia soprattutto la sinistra (e non a caso il giudice che ha trasmesso gli atti alla Corte, sospendendo il processo al radicale Marco Cappato, è un esponente storico di Magistratura democratica).
Così si capisce perchè alla fine sia entrato in scena quello che
è, in un certo senso, un sedicesimo giudice della Consulta: Sergio Mattarella. La Corte ha smentito con forza che il Presidente avesse chiamato Lattanzi premendo per una decisione «moderata». Ma a volte non serve nemmeno telefonare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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