È solo l'ultimo dei ricatti, quello di Maria Elena Boschi. Quando il ministro delle Riforme, alla vigilia dei ballottaggi, dice che se a Torino vincerà la candidata sindaco del M5S la città perderà 250 milioni, fa pesare il rapporto privilegiato che i concorrenti dem hanno con il governo renziano.
Nella capitale è apparso chiaro che si giocava questa carta quando Roberto Giachetti ha annunciato, in casa dei costruttori dell'Ance, che sarebbe arrivato un miliardo con lo «Sblocca Roma» perché il governo avrebbe dato il via libera agli investimenti privati fermi al palo. E la grillina Virginia Raggi chiese al premier: «Il miliardo sei pronto a darlo a Roma o al Pd?».
Quella del governo di Matteo Renzi è una lunga storia di ricatti, di ultimatum, di aut aut, che molto hanno a che fare con lo stile personale del presidente del consiglio. Una sorta di declinazione italica dell'après moi le déluge!, attribuito al re di Francia Luigi XV.
Ecco, quello che ripete il premier ogni volta che si trova di fronte ad un ostacolo è: dopo di me l'Italia sarà nel caos. Un modo per convincere che se cade lui dovremo fare un salto nel buio, che di fronte alle opposizioni populiste di Grillo e Salvini non esiste alternativa credibile nel Paese.
È successo per forzare l'approvazione della riforma costituzionale sul Senato come dell'Italicum, per forzare la mano sulla Buona scuola, il Jobs act, le unioni civili. A colpi di fiducia e di avvertimenti.
L'emblema di questo ricatto, ogni volta anticipato dal perentorio: «Non accetto ricatti!», è naturalmente nella trasformazione del referendum di ottobre in un plebiscito personale. Nell'avviso che una vittoria del No avrebbe come conseguenza un «tutti a casa», a cominciare dal governo per arrivare al Parlamento.
La campagna per il Sì al referendum Renzi l'ha puntata sul terrore di questo effetto, mettendo da parte la discussione nel merito dei contenuti della riforma costituzionale.
«Non accetto ricatti, io i voti li trovo comunque», ammonì nel 2015 dopo la rottura del Patto del Nazareno, quando tra i suoi qualcuno voleva farlo ragionare sull'utilità di un rapporto tra Pd e Fi.
E ogni volta che in casa sua la minoranza dem chiede di cambiare strada o di modificare una legge usa lo stesso linguaggio. Ecco la frase simbolo: «A chi immagina su singoli provvedimenti - unioni civili, riforme, Jobs Act - di dire O fate come voglio io o me ne vado, rispondo: ciao». Il ricatto del no ai ricatti.
Quando i suoi avversari interni gli chiedevano di riaprire la discussione sull'Italicum minacciò i parlamentari di mandarli in blocco a casa. Qualcuno scrisse che stava «ricattando la democrazia».
Per piegare gli oppositori in parlamento alla Buona scuola Renzi spiegò che si assumevano la responsabilità di far saltare l'assunzione dei precari. Minaccia? Ricatto? O che altro?
Anche in Europa lo stile del premier è sempre stato questo.
Quando i Paesi soprattutto dell'Est si opponevano al sistema delle quote disse: «O accettate i migranti o noi, Paesi contributori, vi bloccheremo i fondi Ue». Insorsero dall'Ungheria alla Polonia e l'accusa al premier italiano fu sempre quella: «Ricatto politico».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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