Mario Draghi è un capofila della dura - e soprattutto coesa, il che non era affatto scontato all'inizio - reazione europea all'aggressione russa all'Ucraina. Senza compromessi sulle sanzioni a Mosca, deciso in favore dell'ammissione di Kiev nell'Unione Europea e sull'invio delle armi necessarie al Paese attaccato per difendersi. Senza dimenticare il suo ruolo politico attivo e determinato per fissare un prezzo massimo per il gas. Tutte cose che il Cremlino non ha apprezzato. Nello scintillante palazzo del potere putiniano hanno ben presente che Draghi, con l'azione del suo governo, ha fatto piazza pulita di quel filorussianesimo più o meno sotterraneo che aveva caratterizzato le scelte dell'Italia nel passato, in particolare ai tempi del gialloverde «Conte I» in cui non ci si faceva problemi a esprimere simpatie e a stendere tappeti rossi reali e virtuali per dittatori euroasiatici.
Nel resto d'Europa e in America dove a differenza che da noi la partecipazione alla Nato e alla stessa Ue non viene vissuta da troppi sia a sinistra che a destra come un obbligo mal sopportato si percepisce più chiaramente la rilevanza del cambiamento di rotta che Draghi ha saputo imporre e che non si vuole veder svanire: un cambio di sentimento, prima ancora che di sostanza politica. Che pure c'è stata eccome, e basterebbe ricordare che su quel treno diretto a Kiev il mese scorso era stato il premier italiano a insistere con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, argomentando lucidamente fino a persuaderli della necessità di esprimere una comune, concreta e inequivocabile posizione di sostegno a Kiev da parte delle tre principali potenze dell'Unione.
Ora, checché ne dicano al Cremlino e al ministero degli Esteri russo, le difficoltà politiche di Macron, del premier britannico Boris Johnson e adesso quelle di Draghi in Italia non vengono affatto vissute con il distaccato rispetto per gli affari interni altrui. Piuttosto, come ha fatto notare il ministro degli Esteri Di Maio, nei palazzi del potere di Mosca si brinda ad esse più che volentieri. E Di Maio (fresco di addio al mondo ambiguo dei Cinquestelle, che ben conosce e che secondo fonti dell'entourage di Joe Biden avrebbe goduto di finanziamenti russi in nero) non è il solo a notare la solare evidenza di ciò che ha definito l'offerta a Putin da parte di Giuseppe Conte della testa di Draghi su un piatto d'argento: il leader del M5S avrà certamente come priorità quella di salvare le fortune del suo partito in agonia, ma se appena si solleva lo sguardo dalle miserie dei tatticismi politici italiani giocati sulla tolda del Titanic, è impossibile non accorgersi del favore colossale che egli ha fatto a Vladimir Putin. Ed è legittimo chiedersi nell'interesse di chi, e su eventuale input di chi, abbia ritenuto di infliggere proprio adesso un tale danno al fronte occidentale.
In Russia e in Ucraina simili preoccupazioni vengono espresse più direttamente. Vladimir Milov, che vent'anni fa fu giovanissimo viceministro russo dell'Energia ai tempi della prima presidenza Putin per poi passare nei ranghi di Scelta Democratica con l'oppositore Aleksei Navalny, scrive secco e chiaro in un tweet che «l'amico di Putin Giuseppe Conte sta cercando di far cadere il governo di Mario Draghi in Italia».
E da Kiev dove si è ben capito cosa ci sia realmente in ballo arriva l'accorato appello-denuncia di Mikhaylo Podolyak: «La tradizionale lotta politica interna nei Paesi occidentali non deve toccare l'unità su questioni fondamentali per il bene e per il male come la fornitura di armi all'Ucraina. Non possiamo permettere al Cremlino scrive il primo consigliere del presidente Volodymyr Zelensky di usare la competizione politica come arma per minare le democrazie».
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