«Ma varrà la pena rischiare il Covid per votare al referendum?». La domanda si insinua in testa come il fruscìo di un serpentello. È stato un attimo eppure ho avuto il dubbio anch'io, che ho la tessera elettorale piena di timbri, alla parola Costituzione provo un leggero sobbalzo al cuore, mi commuovo con l'inno nazionale e appena ho ricevuto la mail del Comune di Milano che lanciava l'sos perché mancavano presidenti di seggio stavo per candidarmi, prima di ricordare che domenica e lunedì dovevo lavorare. Quando andavo a scuola mi piaceva persino l'educazione civica.
Eppure la paura è un sentimento capace di insinuarsi per le più strane vie irrazionali. Ma se vado al supermercato e al ristorante e al bar e nei negozi e in casa di amici, perché mai non dovrei andare al seggio? Forse perché a Londra e a Parigi sembrano alla vigilia di un nuovo lockdown? Basta essere prudenti, come ha detto tante volte persino il Papa, e rispettare le regole. La decisione è andare domenica mattina, subito dopo la Messa delle nove. Se c'è coda si fila via e si torna lunedì, quando gli altri saranno al lavoro. Il rimuginìo sguiscia via come era arrivato. Evviva, finalmente a votare.
È giunta l'ora. Temperatura ben lontana dai 37,5 gradi che soli avrebbero potuto far dimenticare l seggio. E poi la sera prima una mia amica, salutandomi mentre lasciavo casa sua, mi aveva puntato addosso il termoscanner: 36,3. «Buona domenica referendaria» dice un sacerdote dopo la fine della Messa. Una specie di benedizione.
Pochi passi per il seggio. Anziani e disabili aspettano l'ascensore, amici e amiche del quartiere salutano con gli occhi. Strisce azzurre e strisce rosse a indicare l'entrata e l'uscita, anche se i percorsi confondono un po', di assembramenti neanche a parlarne, il cortile della scuola è una piazza d'armi, sulle scale rispettare la distanza di un metro è un gioco da ragazzi, ecco la sezione. Libera, anche se nelle altre ci sono tante mascherine in fila, la mia è libera.
Le tre signore che presiedono alle operazioni di voto oggi mi sembrano eroine della democrazia: si sa che non lo fanno per arricchirsi e in tempo di Covid loro sì che avrebbero qualche ragionevole ragione di vago timore. Invece sono sorridenti e armate di gel. Inondo le mani di liquido. Giù un attimo la mascherina per verificare che sia proprio io, prima di riprendere in mano passaporto e tessera elettorale nuovo giro di gel, mi disinfettano davanti agli occhi la matita copiativa ma mi consigliano di sanificare ancora le mani. «Noi lo facciamo da stamattina alle sette e ormai siamo scarnificate» scherzano.
Il gel mi cola dalle dita ma ho guadagnato la cabina elettorale. Un attimo e sono fuori. «Inserisco io la scheda, vero?» «Certo» e mostrano il gel. Nuova ondata alcolica. Un'occhiata alla lavagna a caccia dell'affluenza e via dalla sezione. Ligia al protocollo di sicurezza, mi disinfetto ancora. Nessuno parla con nessuno dentro le mura della scuola, sembra il regno del bon ton.
Fuori, liberi tutti. Vado al bar a prendere il caffè e mi avvolgo nell'ennesima ondata di gel. Mi avvicina un amico col quotidiano sotto braccio. «Sono andato a votare, perché penso che sia fondamentale, non importa che cosa voti, l'importante è votare» mi dice.
Annuisco al mio barone de Coubertin, l'importante non è vincere ma partecipare. «Se poi si vince - penso tra me e me - è anche meglio». Intanto noi che abbiniamo la mascherina alla tessera elettorale e il gel al caffè abbiamo vinto la battaglia con la paura.
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