Giulio Giorello, lei che è filosofo della scienza, che cosa ha pensato quando ha saputo della morte di Stephen Hawking?
«Ho provato un forte senso di dispiacere. Era un ingegno brillante, un uomo coraggioso e una persona dotata di ironia: tre doti che non si ritrovano facilmente in uno stesso individuo. Ero appassionato ad alcune delle discussioni che ebbe con i colleghi, come Roger Penrose; e mi piaceva il suo stile, come nella sua Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo (Rizzoli)».
Uno dei primi bestseller scientifici: ha venduto milioni di copie.
«Sapeva raccontare bene le sue idee, anche al grande pubblico, e aveva uno stile molto efficace, capace di evocare alcune immagini forti. Come quella di poter leggere nella mente di Dio, per capire come sia fatta la natura fisica».
Che cosa ha significato per la scienza?
«Era uno scienziato sottile e preciso insieme. Verso il 1974 fu Hawking, con Jacob Bekenstein, a mostrare che i buchi neri evaporano, cioè emettono una radiazione termica. I buchi neri sono grandi concentrazioni di masse, così potenti che nemmeno la luce riesce a sfuggire».
E invece...
«Hawking è arrivato alla conclusione che i buchi neri fossero un po' meno scuri di quanto si pensasse. Sembra molto tecnica, ma è una parte affascinante della cosmologia. E poi Hawking fu sempre attratto dal grande scisma avvenuto nella fisica: da una parte la relatività generale, che vale per le grandi masse e dall'altra la fisica quantistica, che ha pregnanza quando si ha a che fare con il micromondo dell'enormemente piccolo».
È qui che entra in gioco la famosa «teoria del tutto»?
«Sì. Il grande sogno di ogni fisico teorico è mettere insieme i due quadri. Ancora oggi, la sfida è far rientrare la gravitazione universale nel contesto quantistico».
Hawking si espresse più volte e in modo ambivalente su Dio. Qual è il rapporto dello scienziato con la fede?
«Dipende molto, caso per caso. Se dovessi dire, dal mio punto di vista ritengo che la fisica, e la scienza in generale, non abbiano alcun bisogno di Dio. Il che non implica un atteggiamento ateistico militante. Conosco alcuni fisici e biologi profondamente credenti e altri che, come minimo, si definirebbero agnostici, come Darwin verso la fine della sua vita, o atei. Io comunque sono portato a tenere separato l'ambito Dio dall'ambito mondo fisico, in senso lato».
Pensa che la malattia abbia influito in questo?
«Io posso solo dire che ero spinto da una forte ammirazione per lui, per il coraggio con cui affrontava una situazione fisica durissima e per l'ingegnosità con cui cercava modi per esprimere le sue idee al resto del mondo: un esempio di meraviglioso coraggio. Che questo possa portare a una posizione atea, non saprei giudicare. E poi un conto è credere in Dio, un conto credere nel Dio delle religioni rivelate. Uno potrebbe pensare a un Dio come grandiosa intelligenza matematica, come il grande Baruch Spinoza, il mio filosofo preferito».
Da scienziato e da inglese, Hawking era scettico.
«In questo c'è un precedente illustre, che è Bertrand Russell. A William James, il pragmatista americano che parlava della volontà di credere, Russell rispose che, per quanto lo riguardava, preferiva la volontà di dubitare. E nel 1928 scrisse quel capolavoro che sono i Saggi scettici.
Una certa dose di scetticismo è una dote molto importante per qualunque fisico serio. E intendo serio, non serioso. Basta sfogliare la sua Breve storia del tempo, per capire quanto Hawking fosse avvincente. Su questo, nessuno scetticismo».
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