Usava i nostri soldi per i maghi Pm se la cava con una censura

Col telefonino di servizio consultava a pagamento cartomanti ed esperti del lotto Accusata di peculato, in sede penale era uscita indenne per la modestia del danno

Usava i nostri soldi per i maghi Pm se la cava con una censura

L'album di famiglia della magistratura italiana è una miniera strepitosa di storie incredibili. L'ultima ha per protagonista una signora, pubblico ministero a Potenza, che con il cellulare di servizio chiamava compulsivamente maghi, cartomanti e previsioni del lotto. Forse perché non si fidava troppo della giustizia, di cui pure era alto rappresentante, forse più banalmente perché come tutti era tentata dalla fortuna e cercava, via telefonino, di saperne di più sul proprio futuro. Oggi, dopo dodici anni, l'interminabile vicenda si chiude con la condanna, in sede disciplinare, alla censura. O meglio, le sezioni unite civili della cassazione confermano il precedente verdetto di primo grado. La sanzione è definitiva, il caso pietoso è, finalmente, chiuso. La magistratura subisce un altro sfregio. È o dovrebbe essere un'evidenza elementare: un pm, che fra un'inchiesta e l'altra si metta a chiamare le Wannemarchi di turno, non offre un'immagine alta, equilibrata, credibile del proprio ruolo. Ma ormai siamo abituati a confrontarci con cadute, debolezze e scivolate delle corporazione togata. I casi, puntualmente emersi al Csm, dove si lavano i panni sporchi della casta, sono innumerevoli, talvolta sbalorditivi, con un catalogo di inadempienze, mancanze negligenze che supera ogni immaginazione. Si va dal giudice che ha cosparso di Nutella i bagni del tribunale, non avendo niente di meglio da fare, al pm che ha riscritto il codice facendo ipotizzare un teste che non ricordava nulla di un omicidio. E che naturalmente, pure dopo la seduta non ha saputo dare un nome all'assassino; e poi ancora c'è la pm che si è inginocchiata a chiedere l'elemosina a pochi passi dal suo strategico ufficio e il giudice che ha dimenticato un pacco di sentenze da scrivere in una cassa, manco fossero bottiglie di vino pregiato. E c'è pure un magistrato di sorveglianza che si è superato dando a un detenuto il permesso di andare a trovare il fratello in punto di morte dopo avergli concesso di partecipare pochi giorni prima al funerale dello stesso, risorto dunque per l'occasione. Infine non si può non ricordare quel caso, in bilico fra farsa e dramma, del giudice che non voleva fare udienza perché nel piccolo tribunale marchigiano in cui lavorava c'era il Crocifisso. E per questo, dopo un estenuate procedimento, è stato espulso dalla magistratura.

La vicenda ambientata a Potenza si consuma fra il maggio e l'ottobre 2003, quando la donna, pm in quella procura, chiama per 65 volte con cellulare di servizio numeri di cartomanti, maghi e previsioni del lotto. È l'utilizzo dell'apparecchio pubblico ad innescare l'indagine, per peculato, e poi il doppio processo: penale e disciplinare. Ma è altrettanto palese l'imbarazzo per la vicenda che apre un'altra crepa nell'immagine e nella considerazione della magistratura tricolore, qualunque sia la motivazione delle chiamate. In tribunale la signora pm se la cava alla grande. Si scopre che 49 telefonate su un totale di 65 non avevano avuto risposta perché il telefono aveva squillato a vuoto. E delle 16 rimanenti molte erano state brevi, pochi secondi in tutto, con un costo assai contenuto. Cosi, il capo d'imputazione si affloscia sulla propria debolezza. Alla fine l'imputata viene assolta per la modestia, o meglio «il difetto del danno economico» provocato. Resta l'altra questione, più sottile e insuperabile: la ferita per l'istituzione che fa del decoro, della misura, della sobrietà le proprie cifre costitutive. Nel 2013 arriva la condanna alla censura. Non la più grave ma nemmeno la più blanda delle punizioni che possono essere inflitte ad un magistrato. Ora la conferma. C'è un'altra cicatrice sul corpo della magistratura.

«Ti sparo». Quando s'arrabbiava e litigava era questa la minaccia d'«ordinanza», tanto che ormai chi lo conosceva non ci faceva più caso. Ieri invece l'agente di polizia penitenziaria Luciano Pezzella, 50 anni, in servizio a Secondigliano, l'ha fatto. Ha impugnato la sua pistola Beretta d'ordinanza, una calibro 9 bifilare, e ha svuotato il caricatore su quattro persone. Una strage, tutti morti. Una famiglia sterminata, i suoi vicini di casa, marito moglie e figlio e un loro dipendente.

Ecco l'epilogo di una «convivenza» mai pacifica, di anni di discussioni e intollaranze, di rancori covati e mai sopiti. Ieri la goccia che ha fatto traboccare il vaso: un camioncino parcheggiato male, nel viale che porta a casa.

È una domenica mattina già schiacciata da un sole rovente quando Luciano Pezzella nota il mezzo sotto casa. Siamo in via Carducci a Trentola Ducenta, popoloso centro in provincia di Caserta. Da poco era arrivato un operaio della ditta ortofrutticola di cui è titolare l'odiato vicino. Il trasportatore, Francesco Pinestra, 37 anni aveva parcheggiato e stava sistemando alcune cassette di frutta. Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri del comando provinciale di Caserta, l'agente penitenziario, a questo punto, sarebbe, prima uscito a litigare con i propri vicini per quel parcheggio, una questione dibattuta già tante volte, poi è tornato in casa, ha impugnato la pistola è entrato nell'abitazione dei «rivali» e ha sparato. Nessuno della famiglia ha avuto scampo. Le vittime si chiamavano Michele Verde, 61 anni, la moglie Enza Caiazza, di 58, e il figlio, Pietro Verde, 31 anni. Solo Pinestra ha tentato una fuga, ma ormai era stato ferito a morte: ha smesso di respirare poco dopo in ospedale. Il caso, ha evitato che ci fosse una quinta vittima, Anna, la convivente di Pietro Verde che abita nello stesso palazzo. Lei era rimasta in camera da letto mentre il compagno scendeva nell'appartamento al piano inferiore, occupato dai genitori, per vedere cosa stesse accadendo. Ai militari ha detto sotto choc di non aver sentito nulla in un primo momento perché stava dormendo ma di aver visto, una volta sentiti gli spari, l'omicida che scappava.

Pezzella non è andato, molto lontano. Si è costituito poco dopo ai carabinieri di Aversa. «Ho fatto un macello», ha detto. Come sempre, il dopo risulta il tempo dei perché, della retorica e delle polemiche. Si sarebbe potuta evitare la strage? I colleghi dell'agente lo descrivono come una persona tranquilla.

Qualcun altro, in paese, sostiene il contrario: «Faceva discussioni anche con gli altri vicini -non ricordo che andasse d'accordo con qualcuno, l'ho anche sentito minacciare i Verde». Nessuno però l'aveva mai denunciato.

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