Il vecchio ordine internazionale in crisi

I leader europei continuano a invocare quell'ordine internazionale come fosse immutabile, ma trascurano che la politica di violenza è ormai adottata anche da Paesi occidentali

Il vecchio ordine internazionale in crisi
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L'episodio del presunto hackeraggio dell'aereo di Ursula Von der Leyen da parte di Mosca è la metafora dei rapporti tra Russia ed Europa: da un lato Bruxelles si ostina a credere nelle vecchie regole del diritto internazionale, dall'altro Mosca come Teheran, Hamas e gli Houti considera la violenza uno strumento legittimo di politica nazionale. Pechino non è da meno: moltiplica le esercitazioni per l'invasione di Taiwan e si scontra con Manila per territori senza base legale nella Convenzione Onu.

Sebbene siedano al Consiglio di Sicurezza, Russia e Cina non hanno mai realmente riconosciuto l'architettura globale post-bellica. I leader europei continuano a invocare quell'ordine internazionale come fosse immutabile, ma trascurano che la politica di violenza è ormai adottata anche da Paesi occidentali, basti pensare all'escalation a Gaza, all'attacco in Qatar di Tel Aviv o all'uso dei B-21 Usa contro i siti nucleari iraniani.

Quell'ordine, fondato sulla supremazia americana, è in crisi. Per Washington, un dollaro sopravvalutato e termini di scambio iniqui hanno spostato la produzione in Cina, trasformando l'America in un'economia dipendente da consumi drogati dal dollaro forte e da beni cinesi a basso costo. Da qui la nuova priorità: controllare le catene di fornitura, guidare la produzione con intervento statale e muoversi verso l'economic statecraft. Per contenere Pechino, Washington è costretta a imitarne i metodi: un paradosso per chi voleva esportare la democrazia.

Sul fronte opposto, Pechino leader dei Brics punta a costruire un multilateralismo alternativo per sostituire l'ordine Usa con uno più favorevole ai propri interessi. La firma con Mosca per il gasdotto Power of Siberia 2 certifica il fallimento di Washington nel dividere i due alleati. Ma i Brics restano fragili: rivalità territoriali, assenza di un vero architetto economico e il rifiuto di farsi carico del ruolo di consumatore di ultima istanza rendono la coabitazione instabile.

L'Europa appare smarrita. Bruxelles insiste su Green Deal e riarmo senza finanziare nuove vie di approvvigionamento per le materie prime. Intanto Pechino saccheggia il rottame non ferroso europeo, l'unica materia prima di cui disponiamo, e la Commissione resta a guardare.

Sul fronte interno, esplode la crisi del debito privato francese che richiederà una pesante riduzione dei salari reali, venduta come lotta al debito pubblico ma in realtà finalizzata a comprimere i consumi e riequilibrare la bilancia dei pagamenti: la "cura Monti". La crisi francese ha spinto lo spread Btp-Oat alla parità, grazie anche al Pnrr e alla politica prudente di Roma, pur ricordando che il Pnrr resta debito da rimborsare. Ma guai alla compiacenza: l'industria europea affronta un settembre peggiore di luglio, la Germania scivola nella deflazione, i consumi di beni durevoli crollano.

Dal 2026 la carbon tax (Cbam) causerà uno shock dei costi per chi importa, mentre sul fronte export le imprese metalmeccaniche scoprono che il dazio Usa non è del 15% ma sfiora il 50%, perché applicato a tutti i prodotti contenenti acciaio e alluminio, come motori o pompe industriali. Il vero problema è calcolare il contenuto di metallo di ogni pezzo: una trinciatrice per mais ha 15.000 componenti, servono dati da ogni fornitore.

Il contesto resta

complicato e la stagflazione bussa alle porte della Ue. Occorre sfruttare la finestra favorevole per liberare risorse e rilanciare l'economia italiana senza attendere Bruxelles. Altrimenti, il contagio francese sarà inevitabile.

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