Che l'ospedale in Fiera a Milano non sia servito quasi a nulla è un fatto. Su 160 posti disponibili, creati in pochi giorni dal duo Fontana-Bertolaso, solo pochi sono stati occupati da pazienti Covid-19. Dunque le polemiche erano inevitabili. "Hanno speso 21 milioni per 25 pazienti", ha tuonato il grillino Riccardo Ricciardi alla Camera nei giorni scorsi. La procura meneghina ha aperto un fascicolo. La Guardia di Finanza è andata a far visita al nosocomio puntuale come un orologio svizzero. E ormai si fa sempre più diffusa l’idea che, alla fine, quello che sembrava un "miracolo italiano" si sia in realtà rivelato il più tragico dei flop. Osservando la vicenda da questo punto di vista, verrebbe da stendere un velo pietoso. E dare ragione a Ricciardi.
Peccato che, come al solito, si tenda ad osservare gli eventi con troppi paraocchi e poca memoria. Oggi è facile dire "potevamo anche non costruirlo", molto più difficile era prendere una decisione simile nei giorni del caos coronavirus. Proviamo a fare un salto indietro nel tempo. Il 1 marzo Repubblica, non certo un quotidiano leghista, riassumeva così quelle tragiche ore: "L’urgenza, oggi, è rafforzare la porzione più fragile del sistema sanitario: le rianimazioni o terapie intensive”. Le cronache lo raccontano benissimo. Gli anestesisti venivano precettati nelle terapie intensive, lasciando sguarniti gli altri reparti. I Pronto soccorso erano presi d'assalto. La gente moriva come mosche. E la società che rappresenta i rianimatori, la Siaarti, aveva emesso un documento per suggerire di riservare i (pochi) respiratori a giovani e persone con più probabilità di sopravvivere, sacrificando anziani e malati cronici.
Non è un caso se il ministero della Salute, con una circolare del 1 marzo, ha chiesto a tutte le regioni, compresa la Lombardia, di aumentare del 50 per cento i letti in TI. Il Pirellone ci ha provato. Solo che gli ospedali sul territorio avevano già fatto il possibile: dagli Spedali Civili di Brescia al San Matteo di Pavia, dal Papa Giovanni XXIII di Bergamo al nosocomio di Cremona, tutti avevano cercato di aumentare i posti letto dove possibile, recuperando i respiratori che - nel frattempo - la Protezione Civile ritardava ad acquistare. Ma tutto sembrava inutile. È in questo contesto che è nata l'idea di investire denaro privato (non pubblico) nell’ospedale in Fiera. L’ha detto pure Mario Monti (altro leghista?): "In quel momento c'era bisogno di terapie intensive, è stato costruito con fondi privati e con il consenso popolare”. Amen.
Tra i detrattori del modello lombardo, però, c’è ovviamente il Pd locale, che per voce del capogruppo Fabio Pizzul ha definito l'ospedale "la rappresentazione plastica del fallimento progettuale" della Regione nella gestione dell’emergenza. Peccato che qualche chilometro più un là, il collega di partito, nonché governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, abbia realizzato una "astronave" identica a quella lombarda. Anche il nosocomio di Civitanova Marche (80 posti letto) è al momento inutilizzato, ma il piddino non intende far marcia indietro. Il motivo? Lo stesso che spinge Fontana e Gallera a ritenerlo utile in vista di un possibile ritorno del virus a ottobre: “È un bene avere una riserva di rianimazioni in caso di necessità”.
In fondo, sta facendo lo stesso anche la Germania, spesso disegnata come la sorella maggiore bella e brava. Oggi Berlino dispone di 32.537 posti in terapia intensiva e “solo” 11.857 sono occupati. A metà aprile il ministro della Sanità, Jens Spahan, informava che il 25-30% dei posti resterà comunque riservato ai malati di Covid nonostante la regressione del virus. Questo significa che buona parte dei letti, per ora 20mila, è e resterà vuoto, in attesa di tempi peggiori. Perché allora scandalizzarsi se la Lombardia e le Marche ne tengono una riserva pronta all'uso? "Diciamo sempre che non c'è abbastanza prevenzione - ha detto giustamente Ceriscioli - poi il giorno in cui facciamo una scelta che ci protegge da un rischio, questa diventa un errore. Penso che avere a disposizione posti in più sia una risorsa, non un problema".
Infatti, anche se non può dirlo, il governo la pensa allo stesso modo. Lo dimostra l’articolo 2 del Decreto Rilancio appena licenziato dal Consiglio dei ministri sul "Riordino della rete ospedaliera". Nel testo si parla del rischio di una recrudescenza in ottobre, della necessità di prevenire il peggio, e quindi di realizzare strutture ospedaliere per far fronte ad una seconda ondata di infezioni. Le Regioni, scrive Palazzo Chigi, devono garantire “attività in regime di ricovero in Terapia Intensiva e in aree di assistenza ad alta intensità di cure, rendendo strutturale la risposta all’aumento significativo della domanda di assistenza in relazione alle successive fasi di gestione della situazione epidemiologica correlata al virus SarsCoV-2, ai suoi esiti e a eventuali accrescimenti improvvisi della curva pandemica". Per questo va resa strutturale "la dotazione di almeno 3.500 posti letto di terapia intensiva” e, soprattutto, vengono messi a disposizione "300 posti letto di terapia intensiva, suddivisi in 4 strutture movimentabili, ciascuna delle quali dotata di 75 posti letto, da allocare in aree attrezzabili preventivamente individuate da parte di ciascuna regione e provincia autonoma".
In pratica come la Lombardia (e le Marche). Perché quelle "astronavi" magari non serviranno, e allora saremo tutti contenti. Ma vale sempre un vecchio detto: prevenire è meglio che curare, anche se costa 21 milioni di euro. Peraltro tutti privati.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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