Coronavirus

La verità sulle "zone rosse": ​ecco tutti gli errori di Conte

Una sequela di ritardi, una caterva di allarmi rimasti inascoltati e il rimpallo di responsabilità. Ecco tutti i buchi di Palazzo Chigi

La verità sulle "zone rosse": ​ecco tutti gli errori di Conte

Chi vuole mettere la Regione Lombardia sul banco degli imputati probabilmente è in cattiva fede oppure non sa di cosa parla. I giorni a cavallo tra la fine di febbraio, quando ci siamo trovati a gestire i primi casi di contagio, e l'inizio di marzo, quando ci siamo accorti che stava crollando tutto, sono stati segnati dal caos. Un caos che ha travolto, innanzitutto, le corsie degli ospedali, a cui non bastavano i posti letto, i respiratori nelle terapie intensive, i dispositivi di protezione individuale (Dpi), i governatori di Regione, che si sono trovati a gestire un'emergenza sanitaria senza un manuale che spiegasse come intervenire, e il governo che, tramortito dai campanelli d'allarme che, di ora in ora, si accendevano qua e là colorando di rosso la cartina del Nord Italia, ha procrastinato decisioni che avrebbero dovuto essere prese in tempo zero. Ed è qui che si annida l'errore. In Val Seriana, come nel resto della Lombardia. Perché le polemiche che stanno montando nella Bergamasca potrebbero travolgere il premier Giuseppe Conte per le mancate "zone rosse" a Cremona e a Brescia. E che dire di Piacenza dove i numeri di contagi e decessi sono altrettanto drammatici.

L'indecisione di Palazzo Chigi

Chi avrebbe dovuto decidere, non lo ha fatto. O meglio: lo ha fatto con un ritardo spaventoso. La catena di errori, per quanto riguarda le valli che abbracciano Bergamo, inizia il 2 marzo. Già allora, come svelato da Tpi, l'Istituto superiore di sanità sapeva dei rischi che si stavano correndo nei Comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi. Rischi tanto elevati da spingerlo a consigliare la creazione di nuove zone rosse. In quelle ore anche la Regione Lombardia faceva la sua parte chiedendo a Palazzo Chigi misure più stringenti. "C’è un nuovo focolaio a Bergamo". L'indomani anche il Comitato tecnico scientifico, come riportato dal Corriere della Sera, arrivava alla stessa conclusione: "I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre venti casi, con molte probabilità ascivibili ad un’unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l'R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio". Le telefonate tra Roma e Milano erano incessanti. Ma a Palazzo Chigi ancora non si convinceva a chiudere tutto. Dai tecnici voleva "ulteriori elementi per decidere se estendere la zona rossa" ai Comuni-focolaio del Bergamasco perché, come trascriveva in un memo pubblicato poi da Repubblica, "il quadro epidemiologico dei giorni 3 e 4 marzo restituiva una situazione ormai critica in diverse aree della Regione Lombardia". In quei giorni i numeri erano, infatti, allarmanti un po' ovunque: "Il contagio era ormai esteso nel territorio lombardo - si legge - al 3 marzo, a Bergamo risultavano 33 casi; a Lodi, 38; a Cremona, già 76; a Cremona, 27; nel Comune di Zogno, 23; nel Comune di Soresina e in quello di Maleo, 19, e comunque in molti altri comuni della Lombardia si registrano numerosi casi di Covid-19".

esercito porta via le salme da Bergamo

Le accuse alla Regione Lombardia

Oggi Conte sarà sentito dai pm per spiegare quale motivo, quando si è trovato davanti al bivio, ha tentennato così a lungo. In una intervista al Tg3 il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha già fatto sapere che, da quello che le risulta, la decisione di istituire una zona rossa "è una decisione governativa". D'altra parte, durante un estenuante braccio di ferro con un'altra Regione, le Marche, era stato lo stesso governo a intimare i governatori a non fare di testa loro. Si arrivava da giorni dove la tensione (politica) era salita alle stelle, soprattutto con il Veneto che aveva deciso di strappare e di andare per la propria strada contravvenendo alle regole stilate dal ministero della Salute sui tamponi. L'idea di Conte, poi, era di non istituire altre "zone rosse". In presenza di un contagio ormai tanto diffuso, preferiva l'idea di chiudere tutta la Lombardia e le aree limitrofe che erano state attaccate dal virus. Alla fine, però, aveva deciso di non battere nemmeno questa soluzione. Tanto che, quando il 4 marzo aveva firmato l'ennesimo Dpcm, si era limitato a contemplare soltanto misure da applicare "sull’intero territorio nazionale". E anche il 5 marzo, quando il numero uno dell'Iss Silvio Brusaferro cerca di spronarlo a fare un passo in avanti, rimaneva tutto immobile. Anche i soldati mandati ad Alzano e a Nembro per blindare la Val Seriana, come riporta Fausto Biloslavo sul Giornale in edicola oggi, restavano tre giorni con le braccia conserte e poi gli venviva dato l'ordine di rientrare.

Coronavirus

Un ritardo colpevole

Il premier aveva rotto gli indugi nella notte tra il 7 e l'8 marzo. Una conferenza stampa che passarà alla storia: un decreto pasticciato fino all'ultimo, la fuga di notizie, la corsa alle stazioni ferroviarie per salire sull'ultimo treno verso il Sud Italia e il mancato dialogo con il territorio. Tutta la Lombardia, insieme ad altre quattordici province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, diventava "zona rossa". Nessuno poteva più entrare e uscire. Ora si tratta di capire il perché di un ritardo tanto colossale. In molti hanno puntato il dito contro Confindustria. C'è chi ha scritto che gli industriali avevano fatto pressioni sul Pirellone per non chiudere e chi, come oggi Repubblica, quelle pressioni erano state fatte sull'esecutivo al fine di "scongiurare il blocco di un sistema da 680 milioni di fatturato". Non stupisce che le imprese, che da sempre hanno dato da mangiare la Val Seriana, abbiano chiesto di andare avanti a lavorare per "garantire almeno le produzioni essenziali". Gli imprenditori fanno gli imprenditori. Il governo, invece, non ha fatto il governo. Sicuramente non lo ha fatto con dolo. Ma di errori ne sono stati fatti. E tanti. Il dolo, semmai, è stato cercare di addossare le colpe ad altri (alla Regione Lombardia, per esempio) e di non essersi mai fatto vedere in quei paesini falcidiati dal Covid-19. Anche quando, a fine aprile, si è presentato a Bergamo, non lo ha fatto in punta di piedi. È arrivato con estremo ritardo e, quando gli hanno chiesto conto della mancata zona rossa, ha pure avuto il coraggio di trattar male la cronista di Tpi: "Guardi, se lei un domani avrà la responsabilità di governo, scriverà tutti i decreti ed assumerà tutte quante le decisioni" (guarda il video). Adesso non potrà più eludere quella domanda.

E dovrà farlo con la giustizia.

Il premier <a data-autogenerated=Giuseppe Conte" loading="lazy" decoding="async">

Commenti