Diciotto anni dopo il summit che si tenne a Varsavia nel 2005, il Consiglio d'Europa è tornato nuovamente a riunirsi a Reykjavik nel formato dei capi di Stato e di governo. Una due giorni che si chiuderà oggi, dedicata esclusivamente al dossier Ucraina con il via libera al «Registro internazionale dei danni» subiti da Kiev. E con un parterre di tutto rispetto se, dopo i saluti di rito della premier islandese Katrín Jakobsdóttir, intervengono nell'ordine Volodymyr Zelensky, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Giorgia Meloni e Rishi Sunak.
Il vertice in terra d'Islanda, però, è anche l'occasione per un riavvicinamento tra Roma e Parigi dopo le polemiche delle ultime settimane. Con l'inquilino dell'Eliseo che decide di tendere la mano alla premier italiana proprio sul fronte migranti, la questione su cui nelle ultime settimane avevano affondato i colpi (a freddo e in maniera anche piuttosto scomposta) sia il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, che il segretario di Reinassance, Stéphane Séjourné. Certo, non sono quelle «scuse» che aveva invocato Meloni ed è difficile pensare che Macron non fosse al corrente delle uscite di due uomini a lui vicinissimi. Ma è comunque un fatto nuovo e per certi versi inedito che il presidente francese abbia parole di comprensione e apprezzamento per l'Italia e la sua gestione di un dossier migranti che tante volte è stato oggetto di attriti tra Roma e Parigi (tensioni non solo politiche, ma anche fisiche alla frontiera delle Alpi).
Non è un caso che al suo arrivo all'Harpa, la sala concerti e centro congressi che ospita il summit di Reykjavik, Meloni usi un tono piuttosto prudente quando i cronisti le chiedono se ha in programma un incontro con il presidente francese. «Tutti parleremo con tutti», dice genericamente. E puntualizza: «A me premono le questioni che in questo momento la comunità internazionale deve avere la forza di ribadire senza tentennare, il resto sono questioni interne che non mi interessano». Passano una decina di minuti e tocca a Macron fermarsi a favore di telecamere. E l'inquilino dell'Eliseo non solo si dice sicuro che «ci sarà l'occasione di incontrare Meloni» e «scambiare i nostri punti di vista». Ma mostra un'empatia senza precedenti verso le ragioni del governo italiano. «Spero di poter cooperare con il governo di Roma, perché non sottovaluto il fatto che il popolo italiano si trova, come Paese di primo arrivo, a fronteggiare una fortissima pressione», spiega Macron. Che aggiunge: l'Italia «non può essere lasciata da sola», ma servono «strategie comuni per evitare gli arrivi tramite traffici illegali di donne e uomini che provengono da Paesi africani che sono in condizione di miseria importante». E ancora: «Serve solidarietà europea e per questo bisogna lavorare con l'Italia». Insomma - nonostante Macron parli ai microfoni del Tg3 e sia legittimo supporre che avrebbe usato toni diversi con la stampa francese non c'è dubbio che il suo è molto di più di un ramoscello d'ulivo. Che potrebbe concretizzarsi in un bilaterale già al G7 in programma a Hiroshima questo fine settimana. Ovviamente, i due si sono già incontrati ieri a Reykjavik. Tra loro c'è stata una stretta di mano e uno scambio di battute, prima dell'inizio del vertice e poi a margine della photo opportunitity del Consiglio d'Europa. In un clima riferiscono fonti di Palazzo Chigi di «grande cordialità».
Durante il summit, tutti i leader che sono intervenuti hanno sostenuto senza esitazioni le ragioni di Kiev. Con Meloni che ha fatto presente come «l'intera Europa e tutto il mondo libero» siano «debitori» dell'Ucraina. Che, ha fatto sapere Zelensky, continua a difendersi. «Oggi abbiamo abbattuto 18 missili, tutti grazie all'Europa», dice il presidente ucraino. Che sottolinea l'importanza del «Registro internazionale dei danni» arrivato dal Consiglio d'Europa e auspica presto un Tribunale internazionale per i crimini di guerra.
Il vertice di Reykjavik si chiude oggi.
Meloni, come altri leader, ha lasciato l'Islanda nella notte con destinazione il G20 di Hiroshima. Dove arriverà dopo una breve tappa tecnica in Alaska, ad Anchorage. Al ritorno dal Giappone, invece, sosta ad Astana, capitala del Kazakhstan, uno dei grandi esportatori di petrolio.
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